Università Cattolica del Sacro Cuore

Purché non siano più giustizieri che magistrati

La procura di Palermo ha presentato ricorso contro la sentenza di assoluzione di Andreotti. Sostiene che egli abbia mentito in più occasioni, sui suoi rapporti con i cugini Salvo soprattutto, e abbia saputo della contiguità fra uomini della sua corrente in Sicilia e la mafia e si sia prestato a qualche intervento a favore di "uomini d´onore". Sottolinea poi come a suo giudizio i magistrati giudicanti in primo grado abbiano compiuto una valutazione "atomistica" delle prove, senza vederle nel loro coordinarsi e confermarsi a vicenda. Dopo lo straordinario impegno per giungere al processo, il ricorso era, io credo, inevitabile. Non presentarlo sarebbe stato un ammettere di aver sbagliato tutto e, ancor più, di essersene convinti durante il processo stesso.  

Si tratta dunque, per così dire, di un atto dovuto alla propria storia e alle proprie convinzioni. Certo, in mancanza di una riapertura delle indagini, pare difficile che un processo d´appello possa portare a conclusioni molto diverse da quelle del primo. Il problema infatti, come implicitamente confessano i pubblici ministeri, è quello del modo di valutare le prove e il loro peso, è un problema, potremmo dire, di linea complessiva piuttosto che di convincimento punto per punto. E questa è una indubbia debolezza dell´apparato accusatorio, che sembra adatto più a un giudizio morale o a una considerazione storica che a una ricerca di responsabilità penali. E va così oltre ciò che a un tribunale si può legittimamente chiedere.  La mafia è per definizione parassitaria, ha bisogno di referenti con cui trattare, o da intimidire, comunque di istituzioni che ne dissimulino l´agire.

Diversamente dovrebbe prendere il potere in prima persona, farsi ordinamento giuridico compiuto, e non è questo che un´associazione a delinquere desidera; sia perché non avrebbe né l´interesse economico né la forza per farlo, sia perché se lo facesse finirebbe per negare i propri presupposti illegali e sarebbe obbligata, per così dire, a farsi carico della società e, paradossalmente, della giustizia. Non c´è dubbio pertanto che la mafia sarà, o cercherà di essere, dalla parte di chi governa le istituzioni, liberale coi liberali, democristiana coi democristiani, massone coi massoni, socialista coi socialisti e così via.

Anche il famoso prefetto Mori durante il fascismo fu fermato quando sembrò si stesse spingendo troppo oltre mettendo a repentaglio l´appoggio che veniva al regime dagli uomini che avevano sostenuto prima Vittorio Emanuele Orlando cui si deve, come si sa, una pubblica e paradossale difesa della mafia in un famoso discorso al teatro Massimo di Palermo.  Chiunque dunque faccia politica in Sicilia dalla mafia verrà corteggiato, e il problema sarà allora quello dei limiti di questo tanto inevitabile quanto ambiguo e sfuggente rapporto.

Quando la spregiudicatezza, magari in vista di un fine lontano più alto e nobile, diventa complicità e penale corresponsabilità. A mano a mano che ci si allontana dalla lotta e dalle contingenze quotidiane, meno efficaci e plausibili si fanno le armi dell´ordinamento giudiziario, e il rischio diventa quello di confondere processo penale e valutazione politica, di fare, con strumenti inadeguati, il processo al modo d´essere della politica siciliana cercando, per dar coerenza al quadro, un qualche grande vecchio cui tutto possa esser ricondotto, in una visione semplicista della storia ridotta a mera trama d´intrighi personali, a sola lotta per il potere. Come se questo potesse esistere senza forze sociali e convinzioni generali, ragioni di lungo periodo, pluralità di intenzioni e interessi. 

Andreotti, che ha sempre giocato la propria immagine come piccolo Richelieu, disincantato testimone delle miserie umane - «il potere logora chi non ce l´ha», «gli italiani sono medi peccatori», «perché preoccuparsi del divorzio quando quello civile non è nemmeno matrimonio per la chiesa», sono alcune delle sue sentenze più note e compiaciute - al ruolo di grande vecchio si prestava benissimo e, complici le responsabilità, queste sì provabili, di suoi uomini in Sicilia, chiudeva perfettamente il cerchio interpretativo secondo la logica, metagiuridica però, dei pubblici ministeri.

Anch´essi, come Andreotti, vittime della propria immagine e storia. Il guaio è che tutto ciò non si risolve in disputa accademica, in libelli feroci o eleganti: coinvolge la vita di un uomo ormai vecchio e debole e, oltre a ciò, corre il rischio di eludere il problema di come affrontare quotidianamente e fattivamente la mafia stessa nell´illusione che, identificata una testa e troncatala, tutto il corpo cada e si disfi.  Certo, Vittorio Emanuele Orlando in processo non è mai stato portato. Il suo successore nel governo, Andreotti, sì. Che non ci siano intoccabili va bene e testimonia della nostra democrazia.

Ma anche i pubblici ministeri hanno la responsabilità di non logorarne le istituzioni e le forme. Se si rivelassero alla fine giustizieri piuttosto che magistrati sarebbe un danno per tutti, e una vittoria per la mafia.


16/07/2000