Università Cattolica del Sacro Cuore

L´Italia declina? Due idee per rimediare

L´Italia è a rischio decadenza. Manca l´innovazione tecnologica, si investe poco nelle risorse umane, i cervelli fuggono, sono pochi i brevetti. È allarmato il presidente Ciampi, gli danno ragione le indagini che ci relegano ben in basso nel confronto con gli altri Paesi più sviluppati. Il sistema della formazione in questi casi va subito sul banco degli accusati. E basta che un medico di fama dichiari di voler lasciare Palermo per gli Stati Uniti perché il ministro della Sanità accusi i baroni universitari, del tutto incolpevoli nel caso, di preoccuparsi solo dei figli e non dei capaci. Sullo sfondo poi vi è costantemente l´idea che la nostra cultura sia troppo umanistica e poco scientifica, e se nessuno ha il coraggio di dire apertamente quel che ha dichiarato l´università di Belfast poche settimane fa chiudendo il dipartimento di studi classici - abbiamo bisogno di idraulici, non di studiosi dell´antichità greca e romana - molti senza dubbio lo pensano. Peccato che gli stessi i quali affettano anche da noi tanto rude realismo pubblicamente si compiacciano del successo internazionale dell´eccellenza dello stile di vita italiano, testimoniato anche dalla longevità dei connazionali, elogino la bellezza delle piccole città e dei comuni con meno di cinquemila abitanti, vedano nel turismo una grande risorsa, si commuovano per il lardo di Colonnata e per il formaggio di Fossa. Tutte cose che con l´innovazione tecnologica hanno certamente poco a che fare, quando non le siano addirittura antitetiche. Voglio dire insomma, che c´è una lunga e complessiva specificità nella storia della via italiana alla modernità con la quale non si possono non fare i conti e che gridare ogni giorno per anni al lupo al lupo portandoci ad esempio esperienze e situazioni diversissime, siano la Svezia o gli Stati Uniti, fa, come nella favola, solo danno e confusione. Detto questo è altrettanto chiaro che non viviamo nel migliore dei mondi possibili e che molto si può fare anche nello specifico settore della formazione per la crescita armoniosa del Paese. Per quanto riguarda la scuola, essendo in fase avanzata la preparazione della riforma voluta dal ministro Moratti, è il caso di attendere di parlare quando il nuovo si sarà concretizzato per non discutere di realtà superate. Diverso è il discorso sull´università, per la quale non si vedono all´orizzonte progetti significativi e che si continua a considerare come un corpo unico e indifferenziato, per il quale una sola ricetta può aver valore universale. E invece non è così, e questo è il primo punto da tener presente. Ci sono infatti ambiti soprattutto scientifici nei quali la dimensione internazionale della ricerca è un dato ormai pacifico e necessario. Per tali settori, uno può essere la biochimica, per fare un esempio, diventa cruciale pensare secondo una dimensione europea. Diversamente le risorse saranno sempre insufficienti. Quando, come accade, una facoltà di Fisica ha poche decine di studenti e però il suo corpo docente e le attrezzature devono essere sempre complete e continuamente rinnovate, è chiaro che lo sforzo del sistema alla lunga è troppo oneroso per esser sostenuto. In questi casi la questione va posta al livello dell´Unione europea per individuare centri e facoltà cui tutti i Paesi concorrano finanziariamente, come già accade per il dottorato nelle materie storiche con l´Istituto universitario europeo di Firenze. Sono dunque casi in cui occorre una strategia europea, per fondi, docenti e studenti superando confini e normative nazionali. Non lo può fare l´università però, deve essere la politica a muoversi e definire nuovi scenari. Per contro vi sono altri ambiti nei quali l´università deve rispondere a esigenze meramente nazionali, o addirittura specificamente locali. Si pensi alla formazione degli insegnanti o di molte libere professioni. Anche in tali casi dev´essere la politica però a intervenire, ma in modo completamente diverso. Vale dire avendo il coraggio di liberalizzare il sistema abolendo il valore legale del titolo di studio, così da creare una effettiva competizione fra le università e da obbligare le stesse, e il bacino territoriale e sociale cui fanno riferimento, a farsi carico del loro futuro. Resti pure un aiuto da parte dello Stato ma diventi fondamentale la consapevolezza delle istituzioni locali, politiche e sociali, che l´università è affare che riguarda tutta la comunità, che il livello e le caratteristiche che ciascuna deve avere è questione di scelta e responsabilità non solo accademica quanto di strategia generale di sviluppo della singola collettività di riferimento. Tutti deprechiamo gli esamifici, ma quando, come accade, una ricca provincia del Nord vuole la sua università ma enti locali e forze produttive tiran fuori all´anno poco più di un miliardo di vecchie lire, molto poi non possono pretendere. Il che può essere legittimo, ma a patto che se ne sia coscienti, nè ci si immagini di poter far le nozze coi fichi secchi. È chiaro che negli organismi di governo delle università devono entrare, accettando la prospettiva sopra accennata, tutti coloro che la vita delle medesime garantiscono, come peraltro accade già, se pur in modo insufficiente, nei consigli di amministrazione delle poche università non statali. Adattando una vecchia battuta bisogna dire che l´università è per il Paese una cosa troppo seria per lasciarla solo agli universitari. E viene a proposito la proposta degli anni passati di creare delle università di eccellenza. Nella prospettiva della compartecipazione a onori e oneri del governo e delle scelte dell´università, tali centri di eccellenza non dipenderanno, come si ipotizzava, da una graziosa decisione ministeriale, nè dipenderanno dalla forza di lobby dei singoli atenei. L´eccellenza sarà la conseguenza dell´incontro fra scelte politiche, consapevolezza degli operatori economici, capacità dei docenti, soddisfazione degli studenti. Il che potrebbe permettere anche lo scomparsa del sempre sospettato sistema di reclutamento dei docenti per concorso più o meno nazionale. Non sarebbero infatti solo logiche accademiche a decidere chi possa insegnare, bensì strategie pubbliche intese a rendere efficaci investimenti e scelte a garantire di un corpo docente reclutato direttamente e valutato, anche nel compenso, secondo il grado di competenza e preparazione maggiore o minore che gli si richiede. L´ultimo punto d´una riforma dell´università concepita in vista d´una maggior capacità della stessa di lavorare efficacemente riguarda gli studenti e il diritto allo studio. Trent´anni fa il cosiddetto presalario, ovvero l´aiuto economico rigorosamente riservato a chi era, come dice la Costituzione, «capace e meritevole» oltre che in verificate condizioni economiche disagiate e obbligato a mantenere una media molto alta negli esami, era abbastanza limitato nel numero dei fruitori perchè a ciascuno di loro andasse una somma sufficiente a mantenere uno studente fuori sede. L´affermarsi poi di un demagogico lassismo l´ha di fatto svuotato di significato, col risultato di rendere più difficile proprio la strada a quei «cervelli» che a parole si dice tanto di voler premiare e allo stesso modo il ricambio della classe dirigente. Insomma, se non vogliamo trastullarci con le parole e, a destra come a sinistra, lamentarci senza costrutto dell´università, dobbiamo renderci conto che il contributo che l´università può dare non dipende solo dalla probità e impegno, comunque necessari, dei docenti, bensì piuttosto da quanto il Paese vuole fare per l´università stessa, ovvero da quanto la politica sarà capace di fare scelte radicali, così come da quanto economia e società civile vorranno investirvi e farne davvero cosa propria.

12/01/2003