Università Cattolica del Sacro Cuore

Orwell, visioni e profezie di un secolo fa

George Orwell nacque il 25 giugno del 1903 in Birmania dove il padre era impiegato e dove egli stesso sarebbe ritornato dopo gli interrotti studi inglesi per arruolarsi nella Indian imperial police. Nel ´27 di nuovo in Europa decise di sperimentare la vita del proletariato cittadino, a Parigi e Londra. Ebbe poi un ruolo di intellettuale in Inghilterra, con la parentesi spagnola di cui diremo. Morì appena quarantasettenne, nel 1950, di tubercolosi. Si chiamava in realtà Eric Blair e quello con cui è conosciuto fu lo pseudonimo scelto per pubblicare le sue opere. In bilico fra integrazione sociale e aspirazione libertaria, fra la nostalgia della vecchia placida Inghilterra e le durezze del presente che disfano ogni speranza d´Arcadia. Orwell attraversò così, sentendosi sostanzialmente un «fuori casta», la prima metà del secolo ventesimo. Proprio tale condizione, o almeno percezione di sé, gli permise di osservare con uno sguardo comprendente ma critico la realtà, e di ciò diede conto nelle sue opere. Almeno tre sono oggi ancora famosissime: Omaggio alla Catalogna (1938), La fattoria degli animali (1945) e 1984 (1948). Ma fu un successo largamente postumo. Di Omaggio alla Catalogna al momento della morte si erano vendute appena seicento copie. Eppure era un libro che stava dalla parte giusta. Orwell vi narrava infatti la propria partecipazione con i repubblicani alla Guerra civile spagnola. In effetti lo stava troppo. Mentre il ricordo della vita al fronte richiamava quella di un altro famoso libro antimilitarista, Niente di nuovo sul fronte occidentale, per la descrizione della perdita di contesto delle azioni belliche, l´incongruenza della morte data e ricevuta - Orwell che insegue invano un franchista in fuga nella trincea appena conquistata pensa che gliene basterebbe ucciderne uno per aver fatto la sua parte e potrebbe cessare di combattere - altro turbava maggiormente anche il lettore meglio disposto. Ed era la descrizione del ritorno dell´autore a Barcellona, lui che aveva combattuto nelle file degli anarchici, e della scoperta delle purghe che i comunisti stavano là attuando ferocemente nei confronti dei loro alleati estranei all´obbedienza moscovita. L´antifascismo europeo aveva a grande maggioranza preferito chiudere gli occhi su quanto accadeva in Urss e sul comportamento dei sovietici e loro alleati. In troppi avevano scommesso sulla riuscita del progetto comunista, sul fatto che l´applicazione di quella ideologia che si voleva scienza avrebbe condotto l´uomo alla felicità, per ammettere che si trattava di una colossale impostura, che il regime staliniano non era meno contrario alla libertà né più rispettoso dell´uomo di quanto fossero fascismo e nazismo. Né Hanna Arendt aveva ancora coniato il concetto di totalitarismo (riprendendo una espressione di Mussolini che tale aveva vantato il proprio regime) per descrivere il fatto che anche tra i buoni della lotta antifascista potevano esserci dei cattivi. Mentre Orwell tale pericolo vedeva con chiarezza, avendolo sperimentato, e pur senza aver una alternativa politica complessiva da proporre a quel sogno, nemmeno poteva accettare che l´incubo venisse scambiato per speranza. Ed era proprio contro tale possibilità che con le armi del sarcasmo e della visionarietà utopica Orwell decise di combattere, scendendo sempre più nel profondo del male del secolo. Con una scelta che lo portò in vita alla sostanziale marginalità e a uno straordinario successo postumo, allorché le sue allegorie furono riconosciute come straordinarie preveggenze di quanto poteva accadere quando il limite e l´imperfezione dell´umano fossero negati dalla superbia prometeica dei costruttori d´un perfetto mondo nuovo. Ne La fattoria degli animali, come si sa, viene narrata la vittoriosa rivoluzione degli animali contro la tirannia dell´uomo, le speranze dell´eguaglianza, poi il sopravvento preso dal maiale «Palla di lardo», che in un mondo in cui tutti sono eguali è più uguale degli altri, e in nome di ciò crea una dittatura non dissimile da quella dell´uomo. Il riferimento era a Stalin, e la fattoria trasparente metafora dell´Urss. E però l´opera che per la sua potenza d´angosciosa invenzione letteraria, per il suo significato generale e la valenza universale, Orwell ci ha lasciato a testimonianza degli incubi del ventesimo secolo è 1984, ove le cifre invertite segnalano l´anno di composizione e la prossimità dell´incubo che descrive. Il protagonista vive in un mondo governato dal Grande fratello, che si prende cura di tutto, e tutto osserva e controlla, in cui la storia è costantemente riscritta per adeguarsi al presente nel Dipartimento finzione. E basta la cauta presa di consapevolezza di tutto ciò perché anche la storia d´amore del protagonista appaia pericolosa, e lui e lei debbano essere spezzati dentro, annientati nella loro umanità, costretti a rinnegarsi. Non è il vecchio militante bolscevico sadicamente annientato nell´anima dai suoi inquisitori prima d´essere ucciso ne Il buio a mezzogiorno di Koestler, altro romanzo d´allarme di quegli anni, è un uomo qualunque il protagonista di 1984, e la sua colpa non è ideologica, il suo deviazionismo dalla norma prescritta allarma già solo per la pretesa alla libertà di scegliere, cioè di essere libero: nella possibilità di amare, di ricordare. E solo quando entrambi i protagonisti avranno abdicato a se stessi, accettato la disumanità e la schiavitù interiore, allora potranno anche incontrarsi di nuovo e all´occhio del Grande fratello tutto sarà ormai indifferente. Orwell viveva nell´epoca della cortina di ferro, nell´esperienza dei totalitarismi brutali. Secondo i modi di questi egli modellava il futuro temuto, costruiva la nostalgia del mondo passato. Oggi sappiamo che non è andata così. Ma non per questo l´incubo orwelliano si è dissolto, e l´autore va consegnato alla storia. L´incubo su cui ci invitava a riflettere ha assunto l´aspetto gentile della società dell´immagine, la leggerezza d´una apparenza che non impegna, ove l´amore e la libertà, l´identità sono mere maschere provvisorie, da esibire sulla scena d´un mondo che non ti vuole preoccupato d´un nemico esterno, quello che giustificava l´ordine ossessivo e impersonale imposto dal Grande fratello, ma ti rassicura che l´importante è take it easy, che le domande non val nemmeno la pena di farsele. Altrimenti come il protagonista di The Truman show ti troverai a perdere tutto, a rischiare l´ignoto. O come quello di Matrix a un doloroso percorso di riscoperta di sé. Meglio restare nella casa confortevole del nuovo Grande fratello, simulare la vita, il sentimento, esibire la propria povertà per rassicurare allo specchio della Casa i tanti piccoli fratelli fuori che anche la loro vita è normale, anzi che il reality show è esibizione della vita reale. Senza nostalgie, senza altrove, e senza oltre, come neanche Orwell avrebbe potuto immaginare ci sarebbe piaciuto credere.

24/06/2003