Università Cattolica del Sacro Cuore

L´Italia perde Bobbio. Un grande del ´900 tra filosofia e politica

In «Fiori italiani», il racconto e rendiconto qualche volta elegiaco e nostalgico, spesso deluso e grottesco, della sua formazione universitaria nella Padova degli Anni Trenta, Luigi Meneghello ricorda a un certo punto d´aver allora incrociato da lontano un giovane professore, Norberto Bobbio, un filosofo del diritto che - gli dicevano - si occupava delle lacune dell´ordinamento giuridico. Tema misterioso per il letterato Meneghello.  Ma non è questo che importa in primo luogo, quanto per la prova che tale fuggevole ricordo ci dà di come fin da giovane Bobbio, allora appena trentenne, spiccasse per la sua personalità; non fosse solo un professore ma, ben presto, un riferimento intellettuale. In effetti il tema delle lacune solo apparentemente era tecnico e astruso.  Stabilire che l´ordinamento giuridico era più largo della legge dello Stato, così che questa mostrava delle lacune per l´appunto, significava mettere in dubbio l´assolutezza della sovranità dello Stato e negare che legge e diritto fossero la stessa cosa. Ovvero, per tradurla nel linguaggio comune, che nemmeno lo Stato totalitario fascista poteva pretendere di ordinare tutta la realtà, che persino la volontà del Duce aveva dei limiti. Come spesso accade c´era in quella posizione un´intuizione cui Bobbio sarebbe rimasto fedele tutta la vita. C´era l´idea che il diritto era un sistema che andava compreso e costruito logicamente, attraverso la ragione; c´era quella di una sacralità non dello Stato quanto dell´intelligenza del giurista, e in prospettiva dell´intellettuale, cui spettava il compito non di creare, ma di «scoprire» le regole del vivere; c´era anche la  intangibilità dei diritti individuali in quanto parti necessarie di un sistema razionale perché adatto all´uomo, il soggetto dell´ordinamento.   E però Bobbio, per sua e nostra fortuna, ha visto presto la caduta di quel regime contro cui s´era indirizzata la sua ricerca. E nel nuovo sistema democratico quelle idee cambiavano di significato. Offrivano della democrazia una versione ove l´unico valore era quello d´una razionalità proposta come assoluta, rigorosamente indifferente alla storia e negatrice della legittimità di qualunque posizione che pretendesse di difendere dei valori fondati su una qualche idea di bene comune che ponesse limiti alla libertà individuale, tanto più se quell´idea si fondava su una rivelazione soprannaturale. Diveniva nei fatti, quella versione, elitaria. Presumeva che i pochi tanto intelligenti e liberi da averla compresa e fatta propria si ponessero come maestri della nazione. Maestri tanto più seri e superiori quanto più inascoltati dalle masse sedotte dalle promesse del comunismo o dall´attitudine ragionevole e moderata della proposta democristiana. Una proposta che diveniva nella prospettiva di uomini come Bobbio volgarmente compromissoria, corruttrice d´una virtù disincarnata e indifferente alla storia, testimonianza delle ataviche tare inflitte dal cattolicesimo agli italiani. Così come appariva a loro inammissibile la prospettiva d´una dittatura non della ragione ma del proletariato, e la connessa idea che l´individuo potesse esser sacrificato alle esigenze collettive.  Quegli uomini si ritrovarono brevemente nella prospettiva del Partito d´azione, poi si dispersero ma non rinunciarono - e come potevano senza rinnegare se stessi?- a continuare ad ammonire e giudicare. E condannare gli italiani tutti da rifare, e chi li governava accettandone le famose tare. Dunque si trovarono all´opposizione della Dc come sarebbero stati del regime comunista se questo si fosse imposto. E invece del Partito comunista si ritrovarono compagni di strada, taluni alleati o alla fine intellettuali organici come allora si diceva. Sempre considerandosi i veri italiani, gli incorruttibili asceti della ragione-verità. Per questo quando emersero alla luce, come accadde a Bobbio, modesti segni di debolezza nei confronti del regime fascista - la famosa lettera di supplica al Duce per salvaguardare la propria carriera universitaria - questi destarono tanto scandalo. Obbligarono il filosofo a dire che si vergognava di se stesso. Mentre l´avrebbero dovuto invitare a chieder a tutti di riflettere su come si fosse potuto far cultura, e in qualche modo mantener aperti spazi di libertà, in un contesto radicalmente oppressivo. Come diceva un cattolico liberale e democratico senza incertezze, un uomo di specchiata moralità con cui ebbi l´onore di laurearmi molti anni fa, Ugo Nicolini, sì, abbiamo giurato fedeltà al regime come professori universitari, ma era l´unico modo per continuare a parlar di libertà. E però ai Maestri dell´Italia nessuna debolezza poteva esser perdonata. Meglio l´autocritica tardiva inflitta a un vecchio in puro stile staliniano che far i conti con la storia. O eventualmente, meglio la falsificazione della storia. Quando recentemente è morto Alessandro Galante Garrone, altro di quei Maestri, si è voluto ritrovare in un suo articolo da giurista a proposito delle leggi razziali, allora appena emanate, un´astuta strategia di ampliamento delle deroghe previste. Sorvolando sulla stranezza, alla luce dell´interpretazione detta, che poco dopo quello stesso articolo fosse stato ripubblicato integralmente sulla rivista di regime che razzismo e fascismo uniti esaltava. Non doveva esser molto audace. Ma tant´è. Orgogliosi della propria opera di dissacrazione di qualunque mito alla luce dell´affilato rasoio della razionalità, i Maestri sono divenuti mito essi stessi. Parte di una mitica antistoria d´Italia. Col risultato, mi pare, che nell´ossequio devoto si finisce per perder di vista i meriti, certo parziali, certo limitati, ma indubitabili, che essi effettivamente ebbero nello stimolare il dibattito culturale sulla modernizzazione del Paese, nel tutelare lo Stato di diritto. Bobbio è stato uno di questi e gli va dato atto che nei suoi più tardi anni si è impegnato a dimostrare che non si poteva più restar prigionieri della manichea reciproca delegittimazione dell´avversario incarnata in Italia dalla coppia destra-sinistra cui egli stesso aveva per certi versi dato fiato. Non perché il passato sia grigio e indistinto, ché il valore della libertà e della democrazia è irrinunciabile. Bensì perché la crisi delle ideologie ha cambiato il panorama, e i problemi. Era la sua tarda riflessione un far i conti con la storia, alla fine. Era un andare onestamente oltre se stessi. Era un confermare quella statura che il più giovane Meneghello aveva intuito a Padova tanti e tanti anni fa. 10/01/2004