Università Cattolica del Sacro Cuore

Una buona riforma, ma per quale università?

Non male. Così si può sintetizzare il giudizio sul disegno di legge relativo allo stato giuridico dei professori universitari approvato dal Consiglio dei ministri. È un giudizio provvisorio e cauto basato sull´architettura del progetto, non sull´esplorazione, ancora impossibile, dei particolari. Prendiamo l´idea della lista nazionale degli idonei, formata da una commissione nazionale, e valida per cinque anni, entro la quale le università potranno scegliere chi chiamare a insegnare e dopo un periodo di prova assumere a tempo indefinito. Di fondo è senz´altro buona, sia perché ridefinisce le competenze fra ministero e singole università attribuendo al primo un ruolo di garante del sistema e lasciando le seconde responsabili delle proprie scelte, sia perché può assicurare maggior equanimità di giudizio rispetto alle attuali procedure concorsuali per il fatto di separare nettamente il momento del giudizio scientifico - generale - e quello della scelta locale, attenuando altresì il peso delle «scuole» più forti come quello di possibili ricatti personali basati sulla necessità di risolvere il triste caso di Tizio o di Caio. Considerazioni queste ultime che nell´attuale sistema hanno portato a premiare stagionati professori a svantaggio di giovani meritevoli. E però se davvero l´idea sarà buona lo si potrà stabilire solo quando si saprà se la lista sarà aperta, e quanto, o chiusa e come sarà formata la commissione, e quanto larga, e così via. Allo stesso modo la previsione di più agili possibilità da parte di enti e istituzioni di finanziare delle cattedre sarà efficace a seconda dei meccanismi concreti che si stabiliranno. Solo il tempo invece dirà quanto funzionerà il nuovo sistema di avvio dei giovani alla ricerca non più imperniato sul ruolo, a tempo indeterminato, di ricercatore ma su contratti di ricerca che non possono superare in due volte i dieci anni. Il ruolo dei ricercatori ha finito spesso per diventare, per chi vi resta oltre una certa età, o una sinecura o un ricettacolo di frustrazioni. In entrambi i casi una sottrazione di risorse a lungo termine per la ricerca. Il nuovo sistema, che prevede anche l´autonomia dei criteri di scelta da parte delle università, dovrebbe evitare tali rischi suggerendo sia a chi il contratto accetta, sia a chi lo propone un maggior senso di responsabilità per le proprie scelte. L´esito non è infatti una modesta ma comoda sistemazione a vita ma il trovarsi, in caso di non riuscita di carriera nel decennio, a doversi reinventare un progetto di vita. Faccenda magari semplice per chi ha sviluppato competenze facilmente spendibili sul mercato del lavoro, certo molto meno per chi si sia impegnato in fisica teorica o, che so, in filologia ugrofinnica. Che pure ci vuole, sia chiaro, ma secondo una misura che non può dipendere solo dall´abilità manovriera o dal prestigio contingente di un docente perciò capace di «pompare» la propria disciplina e accrescere il numero dei suoi «bambini», come li chiamava uno storico tanto illustre quanto sfacciato. Per chi lavora già nell´università però il punto più atteso del progetto era quello relativo al cosiddetto carico didattico. Che viene raddoppiato. Diventerà obbligatorio per ciascun professore tenere due corsi annuali. La riforma in tal modo adotta brillantemente il principio del «paghi uno prendi due», dimezzando tendenzialmente i costi di bilancio. Il nuovo carico non è scandaloso in sé, ma lasciando da parte la stupida idea che così i professori siano finalmente costretti a lavorare, e visto che le giornate rimangono di ventiquattro ore, la crescita dell´impegno didattico andrà a scapito del tempo per lo studio e la ricerca. E´ da valutare se il gioco vale la candela. Di nuovo puntare su una maggiore autonomia delle università e su una ragionata differenziazione degli impegni stabilita localmente sarebbe stato meglio. Se fosse vero che i matematici a trent´anni hanno esaurito la propria capacità di produzione originale il carico didattico per loro dovrebbe aumentare con l´età, mentre per quelle discipline ove sono capacità e originalità a crescere col tempo, potrebbe magari avvenire l´inverso. Insomma, il disegno di legge si muove nella giusta direzione favorendo la combinazione virtuosa di autonomia e responsabilità, ma è ancora troppo timido in questo senso. Rimane legato all´idea di poter stabilire un sistema valido per tutta l´università, come se non ci fossero ormai situazioni e necessità diversissime a seconda delle facoltà. E rimane poi un´ultima gravissima incognita. Questo progetto ridisegna lo stato giuridico, ma per quale università? Senza una organica riforma dell´università che ripensi il recente sciagurato sistema né si limiti a ritornare al passato, riformare lo stato giuridico serve a poco. Ministro, ancora uno sforzo.

19/01/2004