Università Cattolica del Sacro Cuore

Ci sono buoni motivi per non dimenticare

Nel Sessantotto aveva vent´anni la generazione nata dopo la guerra. Era numerosa, era la prima a crescere in un periodo di sviluppo economico e sociale continuo, se pur con qualche turbolenza, e apparentemente senza limiti o fine. In Italia da pochissimo si era arrestata l´emigrazione transoceanica, gli occupati nell´agricoltura erano crollati rispetto a quelli dell´industria e le campagne si erano svuotate a vantaggio di città cresciute rapidamente. Il Nord bisognoso di mano d´opera attirava da una decina d´anni i giovani del Sud. Era anche la prima in tutta Europa, quella generazione, a giungere alla maggiore età senza aver conosciuto sulla propria pelle una guerra. Per contro chi aveva allora anche solo dieci anni di più, e non parliamo delle donne e uomini maturi o anziani, si era formato in tempi e attraversato vicende ben diverse: fascismo e guerre, livelli e stili di vita generalmente modesti, condizioni sociali largamente bloccate. Poteva però anche andare orgoglioso di quanto aveva alla fine realizzato e consolidato: la democrazia politica, l´avvio dello Stato sociale, il boom economico, e in generale le scoperte scientifiche che cancellavano l´incubo di malattie come la poliomielite o garantivano, come gli antibiotici, un livello sanitario fino ad allora inimmaginabile. E poi la televisione, gli elettrodomestici... Nel 1960 un documentario televisivo vantava i sessant´anni del Novecento: valevano per mille. E qualche anno dopo il maresciallo alla visita di leva si stupiva, «ma siete tutti studenti?».

Ma al tempo stesso tutto questo appariva a coloro che avevano vent´anni acquisito e scontato. Piuttosto delle nuove luci era alle ombre intorno che i giovani prestavano attenzione. Era la lentezza e la diseguaglianza del progresso, qui e altrove, che turbava, non la sua esistenza a stupire. E d´altra parte erano gli stessi adulti a magnificare il mutamento e sollecitare la speranza indicando, come aveva detto Kennedy, una «nuova frontiera» o innescando cambiamenti decisi e coscientemente epocali come aveva fatto la Chiesa - istituzione tradizionalmente prudente - con il Concilio Vaticano II. L´«aria nuova» che Giovanni XXIII vi aveva voluto far entrare suscitava entusiasmi ma, di nuovo, quel che appariva ai protagonisti il risultato di un lungo lavoro di riflessione e fatica anche personale che affondava le sue determinazioni e radici fin negli anni Trenta, sembrava ai più giovani diverso. Ad essi i disgeli politici e i rinnovamenti sociali e culturali apparivano timidi o anche apertura di credito a più audaci imprese. I reali mutamenti e l´insistenza da parte degli adulti sulla novità mettevano però effettivamente fuori gioco la tradizione, ma non solo: in qualche modo la stessa storia. Producevano una frattura che comportava anche spaesamento: dei giovani operai rappresentati nel film di quegli anni «Trevico-Torino, viaggio nel Fiatnam», degli studenti indifferenti anch´essi al mondo dei padri e alla loro esperienza. Non per nulla si osservava allora nascere una «cultura giovanile» che accomunava strettamente la nuova generazione nei gusti e nei modelli di comportamento e consumo al di là delle differenze sociali e la distanziava fin quasi alla reciproca incomprensibilità da quelle precedenti.

«Siate realisti, chiedete l´impossibile» fu uno degli slogan del ´68 francese. «Sotto l´asfalto c´è la spiaggia», assicurava un altro. O anche «È vietato vietare». Osservandoli da lontano non è difficile ricondurli alla costante romantica che attraversa tutta la società occidentale da che Rousseau ne fornì le basi. C´era anche il mito dell´altrove, di una società fatta natura. Era la Cina di Mao: comuni e medici scalzi, rieducazione ed uguaglianza. E l´invito a sparare sul quartier generale, il vecchio saggio e le giovani guardie rosse contro burocrati e gerarchie. L´idea di fondo era sempre la stessa, di contestare le ambiguità e i limiti della società affermando il disprezzo per una tradizione che appariva solo conformismo ipocrita. Ma in realtà per tanto si vada lontano non ci si può allontanare da se stessi. E si metteva così in scena ancora una volta il conflitto irrisolto della modernità fra individuo e società, fra ordine e spontaneità, fra razionalità e passioni. Con una robusta dose di ideologia politica, questa volta, e la certezza in molti di aver trovato la soluzione armonica e definitiva dentro la storia grazie all´incarnarsi in essa di soggetti sociali senza contraddizioni cui far riferimento: il proletario, o meglio ancora l´operaio, in quanto portatore di un´assoluta alternatività (e dunque libertà) secondo una vulgata marxista dai molti padri.

In effetti il mondo degli anni Sessanta era, come si diceva, per molti versi un mondo mai prima sperimentato e i giovani ponevano problemi e trascrivevano ansie e speranze ben comprensibili nelle loro motivazioni più profonde con il senno di poi. Ma allora non molti seppero mantenere lucidità e lungimiranza, non soccombere al panico e alla frustrazione di fronte alla generazione «irriconoscente» dei figli da una parte, e dall´altra non cadere nell´estremismo giovanile sempre più violento e nel conformismo «libertario» indotto dal gruppo e mantenere pure le ragioni etiche del proprio disagio. Pochissimi seppero attraversare le linee e furono incompresi da ambo le parti, come Pasolini che dopo gli scontri di Valle Giulia fra polizia e studenti scriveva sui poliziotti figli reali del popolo, o Davide Maria Turoldo testimone della fede nella solitaria abbazia di Sotto il Monte. Molti, moltissimi soffrirono - e fecero soffrire - in un modo o nell´altro, ma nel corso degli anni arrivarono a darsi conto di sé e della storia comune, e della stessa tradizione di cui erano volenti o nolenti figli. Riannodarono i fili della storia, anche per poterne scrivere le pagine nuove che quei mutamenti epocali esigevano. Dopo di allora il mondo fu di fatto diverso e là per molti versi quello di oggi trova le proprie radici. Anche per questo oggi appare impensabile uno scontro generazionale generale come quello di allora, e però, malgrado la sua inattualità, del Sessantotto non ci si può dimenticare.


23/03/1998