- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 1998
- Il Pds in fuga dal passato
Il Pds in fuga dal passato
In una striscia a fumetti di qualche tempo fa Bobo, il mite e disorientato militante di sinistra inventato da Staino, era interrogato dalla figlia bambina su cosa fosse accaduto un certo giorno, mese e anno. E Bobo rispondeva «non lo ricordo, ma sicuramente abbiamo già fatto autocritica». Mi sembra che dall´amaro retrogusto dell´ironia emerga bene uno dei principali termini del dibattito sul revisionismo storiografico della sinistra, specie comunista, di cui anche su questo giornale si è a più riprese parlato. Diversamente da quel che può apparire a prima vista, infatti, il problema non è tanto quello della difficoltà della sinistra a riconoscere i propri errori di interpretazione della realtà nel passato, quanto la sua assoluta prontezza e disinvoltura nel farlo appena ne sia sollecitata. E quando autocritica non vi sia perché nemmeno richiesta, si assiste comunque ad una vera e propria fuga dal proprio passato. Si va così, tanto per fare qualche esempio, dai penosi tentativi di descrivere Gramsci come un liberale all´abolizione del rosso dalla testata de «L´Unità» fino al rinnegamento esplicito del passato.
Che si dimetta da tutti gli incarichi ottenuti grazie al Pds, ha retoricamente intimato Macaluso a Veltroni visto che ha detto che mai si sarebbe iscritto al partito di Togliatti, senza il quale però il Pds non sarebbe nemmeno esistito. Ma Macaluso è fra i pochi a scandalizzarsi di tanta disinvoltura e a non voler rinnegare, come la rivista su cui scrive, le ragioni del socialismo. Non vi è dubbio che così facendo ci si possa ridurre come i soldati giapponesi i quali continuavano a combattere nella giungla malese una guerra finita da tempo, ma anche il voler dimenticare che uno scontro epocale di idee e di sentire c´è stato, e s´è combattuto sulla vita e la pelle di tanti uomini, e tanto sangue da tante parti si è versato, ha i suoi prezzi. In primo luogo vi è il rischio di ridurre il cambiamento a una mera tattica gattopardesca: tutto deve cambiare perché tutto rimanga uguale, tanto più ora che finalmente si è al potere. Quando D´Alema nel discorso d´addio al Pds e di fondazione dei Democratici di sinistra dice che la falce ed il martello che scompaiono dal simbolo del nuovo partito rimarranno «nella memoria e nella coscienza di ciascuno di noi come una forza morale e una radice democratica» viene in effetti adombrata una sorta di doppia verità. Perché infatti se quel simbolo dà forza morale e ispirazione democratica lo si deve abbandonare, a favore di quello concorrente della rosa socialista? E tanto più se, come dice D´Alema, «Pci e Psi sono due facce della stessa sconfitta»? Considerato che il Psi da lungo tempo non si proponeva più, e Craxi l´ha ben dimostrato, alcun disegno di trasformazione sociale, vine da dire: di quale sconfitta si sta parlando per accomunare i due? Di quella politica generale degli ideali del comunismo o invece semplicemente di una occorrenza locale, italiana e partitica? Si vuol insomma cambiare pelle o semplicemente formazione? Si è avuto torto sui punti fondativi della propria visione dell´uomo e del mondo o si è semplicemente perso il girone d´andata e ci si prepara a quello di ritorno con qualche nuovo acquisto?
Ma anche ammesso che in una occasione come quella dell´addio al Pds qualcosa si volesse concedere alla nostalgia della platea e di formule retoriche, solo si trattasse da parte di D´Alema per meglio far trangugiare l´amaro boccone a una base recalcitrante (ma se così fosse nemmeno questo sarebbe un dato irrilevante), resta un secondo rischio. Che a non voler davvero fare i conti con il proprio passato limitandosi a rimuoverlo con qualche espressione di fastidio, si finisce che gli esami non finiscono mai, e che ad ogni passo si devono mostrare le proprie credenziali democratiche. E ciò in altre parole significa che non potendone più rivendicare apertamente di proprie ci si condanna a una rincorsa senza fine delle ragioni altrui. Le quali non si sa più come discutere, o per sincero timore di non sembrare abbastanza convinti o per quello di rivelare gli antichi opposti convincimenti.
Quasi una riedizione postmoderna e ironica della volontà togliattiana di riprendere dal fango le bandiere che la borghesia vi aveva lasciato cadere. E allora come Veltroni si mettono nello stesso mazzo di figurine dell´infanzia Che Guevara e Kennedy, spingendo sul pedale d´un amarcord generazionale e sentimentale nel quale tutti si possano ritrovare e nessuno lo possa escludere, e si corre dietro a un americanismo ridotto a mito cinematografico e liberismo vitalista, oppure ci si incarta nella melassa delle affermazioni di principio così generali da non far male a nessuno. Quale politico o partito non rivendicherebbe la fatica (si noti, la fatica, non la scelta!) di «stare dalla parte di chi vuole entrare e non di chi chiude la porta»? Forse quel Berlusconi che imboniva le folle promettendo un milione di posti di lavoro? Forse che anche lui non sarebbe d´accordo ad auspicare «una società più aperta e più mobile»?
Certo, nato cantante di cabaret e venditore di aspirapolveri non avrebbe meno titoli a farlo di chi ha lottato una vita nell´apparato di partito. Non solo scorrendo cronaca e commenti di quelli che una volta si chiamavano giornali borghesi, ma sugli stessi de «L´Unità» il discorso fondativo di D´Alema risulta generico, e soprattutto privo di avversari chiaramente individuati, dunque di scelte e di progetto. Certo, riprendendo la formula di Mulgan, uno dei consiglieri di Blair, egli auspica di andare «oltre la politica», ma se fosse andato anche oltre il titolo avrebbe visto che in quel libro John Gray propone la prospettiva d´una società non solo oltre il liberismo thatcheriano, ma anche «dopo la socialdemocrazia». Perché questo è il punto con il quale ci si deve confrontare: non l´accettazione del liberalismo e del mercato - questo alla fin fine è ben possibile per chi ha una radice economicista come la tradizione comunista - né una riedizione debole dello Stato sociale, ma il governo del mercato secondo criteri che non sono più politici nel senso tradizionale, e piuttosto etici. Scrive Gray che «legittimare il mercato richiede che esso possa essere frenato o tolto di mezzo in quelle istituzioni e aree della vita sociale dove il senso comune richiede che i beni siano distribuiti in accordo con norme etiche, che il mercato necessariamente non considera». Combinare etica e Stato abbiamo già sperimentato nell´esperienza del Novecento che porta al totalitarismo. Proprio per questo il problema è di pensare oltre la politica moderna, così come una società solidale oltre lo Stato sociale messo in crisi nella sua sovranità e autorevolezza dalla internazionalizzazione dell´economia e dalla potenza del mercato globale.
Il punto centrale, scrive ancora Gray, è che diversamente da quanto credeva la socialdemocrazia, che ha esteso ai diritti in positivo dello Stato sociale le supposte incondizionate pretese dei diritti negativi liberali di libertà, una visione comunitaria e «oltre la politica» afferma la dipendenza dell´autonomia individuale da una forte rete di mutue obbligazioni. Insomma, non l´utopia moderna e assoluta della pubblica felicità, in salsa marxista o liberale, ci potrà dare una risposta, ma l´umile ricerca di un sempre parziale e mai compiuto bene comune dei cui limiti tutti, e nei confronti di ciascuno, dovremo assumerci la responsabilità. Non di meno richiede andar davvero «oltre la politica», se lo propongano i democratici di sinistra, di destra o di centro.
17/02/1998