Università Cattolica del Sacro Cuore

Infanzia, un bene da tutelare

Bambini abbandonati, bambini uccisi, bambini curati fino all´idolatria, soffocati dalle attenzioni, stressati dalle premure: comportamenti opposti, e però entrambi quotidiani nelle cronache della nostra società. In un modo o nell´altro sembra che l´infanzia provochi disagio, che noi, gli adulti, non sappiamo più bene come rapportarci ai bambini. Una razza in difficoltà coi suoi cuccioli è evidentemente una razza che soffre, vive in una società nella cui cultura qualcosa non va.

Fino a un paio di secoli fa l´infanzia era semplicemente una malattia da cui guarire al più presto, i bambini dopo la prima infanzia degli «ometti»: diversi dagli adulti solo nelle dimensioni e nella minore abilità a comportarsi come i grandi. Non per niente andavano vestiti esattamente come gli adulti. Ancora nella Lombardia austriaca del secondo Settecento la tassa personale, quella sul lavoro, era esatta su tutti i maschi dai quattordici ai sessant´anni. E coerentemente dai quattordici anni si partecipava alla annuale assemblea dei cosiddetti personalisti per deliberare sulla misura della medesima tassa.

E in uno dei grandi romanzi settecenteschi, Le relazioni pericolose, l´oggetto del desiderio e la posta in gioco nella efferata scommessa dei due protagonisti è Cecile de Volanges, quindicenne. È vero che ancora in un racconto di Guelfo Civinini dei primi decenni del secolo egli raccontava la vicenda autobiografica della propria iniziazione amorosa da parte della sua maestra senza che questo provocasse nel lettore scandalo (i racconti di Civinini andavano tranquillamente per le mani delle signorine di buona famiglia), ma si può immaginare che giocasse in ciò un atteggiamento maschilista o «machista» ben diffuso e condiviso.

Certo la situazione inversa non sarebbe stata accettabile. Il fatto è che dal tardo Settecento con la contrapposizione fra un individuo che nasce buono e una società che lo rende cattivo, come sosteneva Rousseau, il bambino acquista una autonomia sempre maggiore nei confronti degli adulti, nel senso che si differenzia da loro: e l´infanzia cessa d´essere una malattia per divenire un bene prezioso da preservare il più a lungo possibile. Non per niente nasce la categoria dell´adolescenza, una transizione sempre più lunga verso l´età adulta. Il bambino non è più un piccolo animale da ammaestrare con le buone o con le cattive - e basta leggere le autobiografie della generazione nata a cavallo di questa transizione tra Sette e Ottocento per trovare quasi invariabilmente il ricordo di maestri maneschi e dai modi molto spicci - mentre l´infanzia diventa un tempo e un altrove mitico per la società. E tanto più quanto i beni ora attribuiti all´infanzia - dall´innocenza alla fiducia, dalla tenerezza alla spontaneità e così via - sembrano allontanarsi dalla quotidianità dell´adulto che sperimenta una società dura e competitiva, priva di solidarietà e di attenzione.

Da qui, da un lato la preoccupazione dei genitori per i propri figli che sconfina nell´angoscia: da quella del dare loro tutto (e non hanno recentemente i giudici tolto i bambini a una famiglia perché povera?) fino a quella sempre più diffusa in questi ultimi anni - e ignota una generazione fa - del possibile figlio rapito, che si accompagna alla richiesta che il figlio sia perfetto - nel fisico come nella formazione intellettuale - a pena di ripudiarlo se così non è. Da qui all´altro estremo l´invidia per l´infanzia e il perverso desiderio di appropriarsene, di appropriarsi dei suoi mitici beni, a costo di pervertirla e distruggerla nei modi più orrendi.

Mi pare che risulti chiaro che la questione dell´infanzia non è allora una faccenda di genitori e pedagogisti, nemmeno solo di servizi sociali più efficienti. È una questione che riguarda tutti e che chiama in causa l´aridità della società, l´assenza di un atteggiamento benevolente e solidale, come ormai si nota da più parti. Ma che ha anche, proprio sui bambini, un altro tremendo effetto. Che se l´infanzia è altro dalla società degli adulti, diventa sempre più difficile educarli alla convivenza. Se i genitori prima dubitano della bontà delle regole che reggono il loro mondo di adulti, come potranno insegnarle ai figli? Non preferiranno proteggerli e mantenerli in una beata irresponsabilità? Se i genitori per primi vorrebbero evadere dalla società in cui vivono, come ne potranno far parte ai loro figli? Ma così facendo non insegneranno paradossalmente l´asocialità e la paura, e non l´amore di cui sentono la mancanza intorno, ai loro stessi figli? Ancora una volta e come sempre valgono le parole del poeta: «Quando senti suonare la campana, non chiedere per chi suona, essa suona sempre per te», siamo noi genitori oppure no, abbiamo noi a che fare con i bambini ogni giorno oppure no.


01/12/1998