Università Cattolica del Sacro Cuore

La terza via di Blair? Parliamone

Negli anni sessanta in Italia si parlava molto di una terza via. Doveva essere alternativa al liberismo capitalista da un lato, al collettivismo comunista dall´altro. Era una aspirazione particolarmente diffusa nella cultura democristiana e costituiva quanto di più prossimo ci fosse a una ideologia per un partito aideologico come la vecchia Dc.

Perno della terza via doveva essere l´azione sociale dello Stato, la sua capacità d´intervento anche economica, ben esemplata dagli enti parastatali, capaci in ipotesi di stare sul mercato ma non soggetti ad esso per i loro fini, anzi capaci di influenzare e moderare beneficamente il mercato stesso. Nel mondo comunista qualcosa di simile era accreditato come progetto alla Jugoslavia, non a caso circondata da un credito di cui oggi pochi vogliono ricordarsi di fronte allo sfacelo prodotto dagli esiti della dittatura titina. Ma tant´è.

Abbandonata in Italia davanti al fallimento del parastato e alla ribellione della società nei confronti di uno Stato sempre meno efficiente, l´idea di una terza via è rispuntata fuori in questi ultimissimi tempi come parola d´ordine di Blair e per certi versi di Clinton. Ed è stata subito fatta propria da coloro che in Italia erano alla ricerca di un collante positivo per l´Ulivo, e addirittura portata a prova dall´evidenza di quel possibile Ulivo mondiale vagheggiato da Prodi.

Ora Anthony Giddens, uno degli intellettuali inglesi più sensibili al disegno di Blair, ha provato a delineare i contorni di questa rinnovata terza via in The Third Way (Polity Press, 1998). Sociologo di lungo corso, legato in origine al pensiero marxista, Giddens ha posto come sottotitolo al suo volume Il rinnovamento della socialdemocrazia, e con coraggio ha affrontato la questione sapendo di non poter più contare sul ricorso all´intervento statale come soluzione per ogni problema. Troppo screditata è ormai la vecchia ricetta, anche nell´Inghilterra post-Tatcher. La socialdemocrazia che egli prefigura non fa dunque più affidamento sul pubblico, sull´azione di un governo che garantisca il cittadino «dalla culla alla tomba», riconosce l´impossibilità di un dirigismo amministrativo complessivo. Si appiglia dunque all´altro corno, quello della società e insiste largamente sulla autoorganizzazione della medesima.

Diversamente da quanto anche da noi si è detto qualche anno fa, ciò non significa tuttavia nemmeno mitizzare la «società civile». È ben chiaro a Giddens che i partiti stanno perdendo sempre più di rilevanza ma pure che, malgrado ciò, i problemi non si sono magicamente risolti a mano a mano che la loro capacità di presa e rappresentanza della società diminuiva. Che anzi la crisi dello strumento partito - inevitabile di fronte alla crisi delle ideologie e del bipolarismo mondiale - lasciava allo scoperto nuovi problemi. La società civile era la società dei cittadini, ma per l´appunto oggi è l´idea che basti puntare sul rispetto dei diritti - del cittadino - per obbligare i poteri pubblici ad agire efficacemente che non basta: perchè i diritti confliggono fra di loro e lo Stato sa sempre meno scegliere quali siano da tutelare a preferenza degli altri.

In altre parole la terza via del futuro non potrà che sciogliere l´abbraccio fra Stato e società, ridefinire la società senza necessariamente collegarla a uno Stato comunque ridotto nelle sue pretese e prestazioni. Non per nulla anche nel dibattito italiano si affaccia l´idea del passaggio dai diritti civili ai diritti sociali e si insiste sulla responsabilità di ciascuno verso gli altri. Tipicamente Giddens riformula il concetto di welfare (senza State) proponendolo non tanto come tutela da qualcosa (malattia, ignoranza e così via) e modo per evitare ogni rischio, ma come benessere positivo non solo economico quanto psichico, un far sentir bene che può addirittura prescindere dall´aiuto economico ma dipendere dalla mobilitazione delle energie dell´individuo sollecitato a ciò dalla consapevolezza della propria responsabilità verso la collettività.

Aiutati che il ciel t´aiuta, si diceva una volta. Ma una volta tolto di mezzo il cielo, su cosa si può fondare questo senso di responsabilità sociale, di ciascuno e di tutti? Questo è lo scoglio contro il quale finora si infrange ogni ricerca di terza via. Perchè l´individuo dovrebbe rinunciare alla ricerca della propria felicità per gli altri? Per dei vantaggi collettivi di cui magari nemmeno godrà? Per «civismo»? Ma se non ci fosse la crisi della virtù civica non avremmo il problema della terza via. Gira e rigira la questione finisce per essere sempre la medesima: su cosa si fonda una società? Qualcuno anche nel mondo laico parla ormai e di nuovo di bene comune, ma come si fa a dar sostanza a questa formula senza una idea condivisa (e superiore a ciascuno) di bene? E come si fa a parlare di bene comune senza dichiarare che tale idea è antitetica a quella di felicità? Come si fa insomma a trovare una nuova via, una nuova configurazione e senso della società, oltre quella della modernità, dell´individuo e del cittadino (e senza rinunciare ai vantaggi che l´affermazione dei diritti dell´uomo ci ha garantito)?

Può sembrare un paradosso, ma per dirla ellitticamente, la postomodernità può fare a meno di Dio?

E per quanto ancora? Come il sociologo Giddens costretto a fare (fosse anche per evitarli) i conti con filosofia e metafisica, così i politici (e noi con loro), possono credere di occuparsi di governi da fare e di maggioranze da trovare, ma anche per loro i conti sono e saranno sempre più altri.


27/10/1998