- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 1998
- «Leggenda nera» da rivedere
«Leggenda nera» da rivedere
Il Papa al termine dell´incontro di studio da lui voluto sul fenomeno dell´Inquisizione, ha invitato gli storici a proseguire nel loro lavoro così da offrire dati certi alla Chiesa stessa in proposito. Che di studio vi sia bisogno, non v´è dubbio. Basti pensare che un noto giornale cattolico, in un articolo di Luca Geronico pubblicato domenica ripeteva che Inquisizione significava processo segreto e senza difensore, quando è ormai noto che le cose non stavano così e che anzi - e si veda in proposito l´autorevolissimo John Tedeschi, Il giudice e l´eretico (Vita e Pensiero, Milano 1997) - dal punto di vista delle procedure il Tribunale inquisitoriale era molto più garantista dei contemporanei tribunali laici, al punto da farsi preferire a questi ultimi da parte degli inquisiti. E che il medesimo Tribunale anche nell´uso della tortura giudiziale - pure praticata di routine dai tribunali laici - seguiva criteri particolarmente restrittivi.
Ma lasciando chi voglia meglio documentarsi sul punto alla lettura del libro di Tedeschi - uno studioso americano figlio di un professore universitario italiano di religione ebraica, costretto a emigrare nel 1938 dalle leggi razziali del fascismo -, va notato che il Pontefice richiamandosi alla necessità di appurare la verità storica ha posto un problema cruciale per il rapporto con il passato. Egli infatti ha sottolineato che agli storici non viene richiesto un giudizio di natura etica, ma di conoscenza.
Ora, è ben noto che la conoscenza storica per sua natura non è definita una volta per tutte, che un conto sono le metodologie tecniche di interrogazione delle fonti, uguali per tutti e scientificamente controllabili, un conto ciò che lo storico chiede, con quelle metodologie, alla documentazione a sua disposizione, e che muta con il mutare degli interessi e delle sensibilità della società cui lo storico appartiene. Così, per tornare un momento a Tedeschi, nelle fonti sull´Inquisizione era possibile da sempre leggere lo scrupolo procedurale, ma perché qualcuno lo facesse occorreva che fosse davvero interessato a porsi il problema di come funzionava l´Inquisizione, senza dar per scontato di conoscere già la risposta desumendola da motivazioni ideologiche generali sul senso della storia, vuoi un senso vuoi nell´altro.
Ma come lo storico non lavora e pensa al di fuori di un contesto a lui contemporaneo, così egli sa di non poter interpretare i fenomeni che studia al di fuori del contesto in cui allora si produssero. E questo vale per tutti i fenomeni, tanto politici che sociali, economici o religiosi. Paradossalmente si potrebbe dire che tanto più lo storico ha presente la parzialità, cioè la storicità, del proprio punto di vista, tanto più sarà capace di cogliere la complessità del contesto in cui si svolgono i fatti che egli studia. E in un momento come il nostro in cui sono in crisi le grandi narrazioni ideologiche sulla storia questo indubbiamente risulta agli storici più facile. E non è un caso allora che nello stesso simposio voluto dal Papa si sia manifestata praticamente all´unanimità fra gli storici una tendenza «revisionista» rispetto alla tradizionale «leggenda nera» sull´Inquisizione. E non solo, e direi non tanto, perché i condannati a morte furono pochi e le pene più miti di quel che poteva apparire a prima vista (una condanna alla reclusione a vita - spiega Tedeschi - si risolveva nei fatti in un triennio di carcerazione), ma perché è prevalsa la consapevolezza che quegli uomini agivano secondo la cultura del loro tempo, e che non si poteva chieder loro di essere estranei al modo di ragionare e di sentire dei loro contemporanei.
A Ginevra c´è un monumento a Serveto, un eretico italiano che - dice la lapide - condannato dalla Chiesa di Roma venne giustiziato da quella di Ginevra, cioè quella calvinista presso la quale si era rifugiato. Eretico per entrambi, da entrambe le parti eguali i metodi. D´altro canto ancora John Locke nel suo trattato sulla tolleranza la reclama per tutti, salvo che per i papisti, cioè per i cattolici, i quali soltanto nel XIX secolo otterranno nella liberale Inghilterra la parità dei diritti con i cittadini di diversa confessione.
Per gli uomini dell´età moderna la fede in Dio era elemento così strutturalmente costitutivo della propria identità che, in linea generale, solo in termini di compromesso e non di principio era possibile tollerare una diversità in tale ambito entro una collettività. Per noi oggi altri sono i princìpi fondativi della convivenza politica, e possiamo proclamarci indifferenti alle differenze di religione; ma non per questo siamo indifferenti a ogni diversità. Non prevede forse la nostra Costituzione il divieto di ricostituzione del Partito fascista? Non è questo un limite alla libertà di associazione e di pensiero? Ma ai costituenti tale limite, pure formalmente contrastante con i princìpi che la stessa carta costituzionale proclamava, appariva ben giustificato per quanto il regime fascista aveva provocato di danni e lutti all´Italia, e lo si poteva perciò imporre. Fra qualche secolo, quando i criteri fondativi della convivenza non saranno più i nostri, magari uno storico si scandalizzerà di questo divieto, ma sarà allora senza dubbio un cattivo storico e un mero moralista, perché sovrapporrà i propri criteri di giudizio a quelli di noi uomini del ventesimo secolo.
Il Papa insomma, mi sembra, ha voluto richiamare tutti alla consapevolezza che non si è mai fuori della storia e che - va sottolineato - non lo è mai nemmeno la Chiesa. La quale deve sempre inculturare il Vangelo, e camminare con le gambe degli uomini di ciascun tempo e realtà. Per inciso, ci si può chiedere se la categoria che si usa oggi di scristianizzazione non sia paradossalmente pacificatoria della coscienza dei cristiani, perché nasconde il fatto che non si sanno intercettare con il Vangelo le richieste di senso e di verità della società, non si sa parlare agli uomini nostri contemporanei.
Ma lasciamo stare, e torniamo al nostro tema. Per un´ultima precisazione. Ovvero per ricordare che il problema non è tanto quello di giudicare il passato per respingerlo fuori di noi, quanto di essere consapevoli, di essere consapevoli della propria storia, che è storia di uomini e di peccatori. È, in termini ecclesiologici questa volta, storia di una Chiesa che partecipa contemporaneamente - per usare la terminologia di Sant´Agostino - della città e dell´uomo e della città di Dio, le quali solo alla fine dei tempi si separeranno. E certo la Chiesa e i cristiani non saranno giustificati allora per una loro impeccabilità - esclusa per principio - ma per la capacità che avranno avuto di mantenere, malgrado le loro debolezza e la loro limitatezza, la fede. Se qualcuno si deve chiedere perdono, e non una volta ma sempre, insomma è prima di tutto a Dio.
04/11/1998