Università Cattolica del Sacro Cuore

Nel 1848 usciva il «Manifesto del Partito comunista»

Ricorre quest´anno il centocinquantesimo anniversario del Manifesto del Partito comunista pubblicato a Londra al principio del 1848 da Marx ed Engels quale documento programmatico della minuscola, ed esiliata, Lega dei comunisti.

Dopo la caduta del Muro di Berlino si potrebbe pensare che il fantasma del comunismo di cui i due autori parlavano non si aggiri più per l´Europa, e che ricordare quell´anniversario non valga la pena. In quell´anno apparvero anche i Principi di economia politica di John Stuart Mill e la Fiera delle vanità di William Thackeray, per fare qualche esempio; ma solo gli storici dell´economia o gli studiosi di letteratura inglese si occupano, forse, di questi anniversari. E pure si tratta di opere di altissimo rilievo nel loro ambito. Così come nessuno, almeno da noi, ricorda che quello fu l´anno nel quale il Texas venne ceduto dal Messico agli Stati Uniti, e cominciò pure la corsa all´oro in California, due tasselli importanti nella costruzione della potenza americana. Insomma, a parte il 1848 politico, passato addirittura in proverbio, l´unico altro evento che si è ricordato un po´ dappertutto di quell´anno, e malgrado la fine del comunismo, è quell´esile Manifesto. Che lui stesso dunque si aggira oggi come un fantasma per l´Europa.

Come è stato osservato, le teorie economiche di Marx sono divenute polvere, e la sua dottrina delle classi del tutto inadeguata a descrivere la struttura sociale (dov´è il proletariato operaio come classe generale?), le sue presunzioni prometeiche nei confronti della natura hanno portato dove ad esse ci si è ispirati a disastri clamorosi (Cernobil per tutti), così come i suoi precetti politici (servono esempi?).

E però nel Manifesto si individuava un problema che ancora e sempre più ci tormenta. È quello stesso sul quale rifletteva in quei medesimi anni un altro intellettuale europeo, Tocqueville osservando preoccupato negli svolgimenti della democrazia americana l´affacciarsi di una forma di vita collettiva mai prima sperimentata, la società di massa: massa di individui sempre meno legati tra loro da vincoli e progetti comuni, sempre più condizionati dal mercato. Un mercato a sua volta sempre più potente e indifferente a confini e tradizioni, e che avrebbe portato, come già concludeva Marx nel Manifesto, all´universale interdipendenza delle nazioni.

Fedele al suo idealismo filosofico e alla certezza di un progresso economico illimitato, Marx coglieva nella contraddizione che così si apriva fra gli ordini politici particolari e la potenza sovversiva e unificante del mercato l´opportunità per il proletariato di costruire un nuovo ordine mondiale fondato sulla sola verità dell´economia - la quale porterebbe all´espansione del proletariato - e sullo smascheramento da essa fatto di ogni «sovrastruttura». Per il proletario infatti, «leggi, morale, religione sono altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi» scriveva Marx, e solo accettando tale dato sarebbe diventato possibile eliminare ogni contraddizione dalla storia.

Non auspicando quanto temendo simili svolgimenti Tocqueville si poneva anch´egli il problema di come garantire la stabilità della società e degli ordinamenti politici liberali diffusisi grazie alla Rivoluzione francese, mentre il capitalismo che da quell´ordinamento traeva protezione e sostegno ne corrodeva però contemporaneamente i fondamenti.

Nell´una prospettiva o nell´altra si può dire che tutta la riflessione politica di questi centocinquant´anni si sia aggirata intorno a tali problemi: una volta che la società dell´antico regime era finita, come combinare l´affermazione delle libertà individuali con l´opportunità di regole sociali e infine con il capitalismo stesso. E si capisce pure come a mano a mano che la globalizzazione dei mercati e la cosiddetta modernizzazione della società siano andate compiendosi in modo sempre più rapido anche tali problemi siano diventati sempre più acuti.

La caduta del Muro di Berlino sancisce certo la sconfitta definitiva della pretesa marxiana di una regolazione della società su base economica, e capace perciò di eliminare ogni contraddizione e realizzare col trionfo del proletariato l´utopia della fine della storia. Su ciò non vi è dubbio. Ma è altrettanto chiaro che la vittoria del sistema capitalistico su quello comunistico non risolve di per sé gli elementi della crisi della politica moderna per quanto sopra si è detto.

Anzi, le sconfitte dei conservatori americani e inglesi dopo la caduta del Muro, quando avrebbero dovuto trarre ogni vantaggio dalla propria intransigenza e dalla vittoria sull´avversario storico, e che offriva la prova provata delle loro migliori ragioni, ce ne danno una drammatica testimonianza. Ma nel contempo sono in crisi pure le soluzioni moderate delle socialdemocrazie, un termine che non a caso si usa anche a sinistra sempre meno volentieri (posto che sinistra a sua volta sia ancora termine significativo).

Si celebra pure la fine dell´utopia, ma con essa finisce anche la speranza di una soluzione definitiva e certa ai problemi e alle complessità della storia. Anzi la storia perde la certezza della sua finalità terrena. Al momento sembra che l´eclettico pragmatismo di Blair, tenuto in piedi da una straordinaria capacità comunicativa, costituisca la formula magica e la speranza più certa. È un po´ poco, si dirà. Ma ecco perché allora il fantasma del Manifesto, e non delle soluzioni ma dei problemi là sollevati, continua senza riposo ad aggirarsi per l´Europa. Come quello di Tocqueville.


05/06/1998