Università Cattolica del Sacro Cuore

Politica, è tutto un programma

Programma, programma. S´ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, diceva Manzoni. Il partito di programma è l´ultimo slogan degli eredi dei partiti più ideologici che ci fossero: esalta il programma Fini, lo fa pure D´Alema. A prima vista in effetti sembra una formula vincente. Dà una bella idea di concretezza, trasmette un senso si serietà. È pensoso e pieno di volontà. Come certi abiti eleganti ma sportivi si può portare in tante diverse occasioni e si è sempre a posto. Ma viene un dubbio: forse che una volta i partiti non avevano un programma? Difficile sostenerlo.

Allora il punto deve essere un altro. Insistere sul programma è un modo per far dimenticare che una volta, quando c´era lui (dal Duce che ha sempre ragione al Migliore, su fino agli esordi degli attuali leaders) il programma era conseguente alle tesi del congresso e queste erano dedotte dall´ideologia applicata alla realtà contingente, la quale ideologia assicurava la conoscenza d´un senso della storia e rassicurava infine sulla validità del programma stesso per la vittoria finale.

Ora di ideologie non si parla più e nemmeno si usa un linguaggio un po´ trucido come quello sopra evocato. Dove sono le avanguardie, dove i gagliardetti? Dove le canzoni che tanto scaldavano il cuore? Dove i simboli di lotta, le fiamme, le falci, i martelli?

Al loro posto immagini agresti, querce e ulivi saldi nella storia e nel tempo; e coccinelle ecologiche invece dell´antica «cimice». E che nemesi per un partito un tempo virilista adottare un simbolo al femminile, e per di più già in uso a designare la branca femminile degli scouts cattolici più piccini. Per fortuna che a ricordare il passato della politica rimane la Lega con le sue camicie verdi, e i suoi guerrieri in maschera medievale sul prato di Pontida.

Ma appunto se questo è il passato, se l´ideologia non esiste più, come si costruisce senza di essa un programma? Certo rimangono alcune idee generalissime, ma così generali che si può dire che tutti vogliono «modernizzare» il Paese e persino il programma di Fini è socialdemocratico, e quello dei democratici di sinistra liberale.

Troppo poco per costruire un programma, ovvero effettuare delle scelte, stabilire delle priorità. Soprattutto per darsi una prospettiva temporale un poco lunga. Quando Napolitano lamenta che si parla solo dell´Euro, quando il Governo fatica sulla cosiddetta fase due, quella del progetto, tanto che ora Veltroni suggerisce di non usare più tale formula, quando il problema sembra solo quello di entrare in Europa e non quello di starci per fare che cosa, quando la politica sembra risolversi nei problemi economici, quando l´opposizione non sa cosa proporre se non patti con la maggioranza, allora evidentemente il problema se sia possibile costruire un programma anche senza una ideologia conclamata di riferimento diventa evidente.

E diventa urgente riflettere su che significhi politica oggi. Lasciamo stare il sospetto che insistere sul programma sia un modo per legittimarsi reciprocamente da destra a sinistra e viceversa come interlocutori responsabili e affidabili. Quand´anche così fosse, non sarebbe questo il nocciolo del problema. La questione di fondo infatti è duplice. Innanzitutto vi è il rischio di costruire un programma apparentemente pragmatico in realtà radicato in una ideologia implicita, quella d´una modernità laicista e individualista che approfittando della crisi delle ideologie nate per risolvere i problemi che l´ideologia liberale poneva nel mentre si affermava, semplicemente a quella ideologia ritorna. Nel settore cruciale della cultura e dell´educazione e quello nel quale in modo più evidente la trama valoriale di fondo delle scelte diventa visibile, questo appare sempre più evidente.

Varrà la pena di affrontare la questione in modo specifico in altra occasione, ma a cercar di comprendere le scelte ministeriali fatte per la formazione dei futuri maestri laureati nelle cui mani metteremo i bambini, non ci si può sottrarre all´impressione del riemergere di uno scientismo veteropositivista e di una indifferenza ostentata per la possibilità di giungere a una verità, mascherata da imparzialità verso ogni opinione. Che è un modo per affermare in effetti una certa idea dell´uomo e della realtà, tutta tecnica, calcolo «razionale» e negazione d´ogni tensione spirituale. Insomma lungo la strada del superamento delle ideologie il rischio è di risolvere - si fa per dire - la crisi conclamata della modernità con la più cruda e vecchia affermazione della modernità, e di confondere efficienza delle procedure (dell´amministrazione ad esempio) con efficacia dei risultati.

La difficoltà a pensarsi come collettività, evidente nelle tensioni secessioniste così come nelle incertezze a impostare una politica per le aree o i ceti più poveri, palesa già ora i costi di una simile impostazione. Ma non vi è soltanto il rischio di una paradossale vittoria della radice ideologica comune alla storia dei partiti di sinistra e di destra proprio nel momento in cui essi come ideologici non si possono più dichiarare, né vi è conseguentemente solo un attacco radicale e generale alle ragioni alternative dei cattolici intorno alle quali si è consolidata la stessa democrazia italiana dal dopoguerra e che tanta parte hanno nella stessa identità italiana - e siamo di fronte a elementi già molto gravi di per sé -, vi è al fondo il rischio di una catastrofe di senso che può portare alle conseguenze collettive più funeste per il nostro Paese.

Accennavamo ai cattolici. La Democrazia Cristiana fu a lungo vilipesa perché partito senza ideologia, solo di programmi, dunque senza una coerenza e una identità forte, capace di ogni compromesso. La domanda ai nuovi partiti di programma è: se il non avere una ideologia ha avuto queste conseguenze, come pensate di evitarle? Ritenete di essere voi soli fatti d´anime belle e purissime? Da dove i vostri militanti e i vostri responsabili traggono la forza morale per una diversità che fra l´altro nemmeno più, penso al Pds, si osa rivendicare? E tanto più perché la Democrazia Cristiana in realtà poteva non avere una ideologia e, almeno fino ad un certo momento della sua storia, avere ciò malgrado una identità e una interna coerenza, in virtù di quell´aggettivo, cristiano, che proponeva al suo agire, all´agire dei cattolici in politica, un fondamento metapolitico che i nuovi partiti di programma non hanno.

E questo è a mio avviso il punto di fondo e quello su cui si misureranno le capacità effettive di innovazione dei leaders di destra e di sinistra. Rinunciare all´ideologia, affidarsi al programma non significa non aver bisogno di ispirazione e di criteri di valore, significa che se non si ha più la certezza di un senso della storia da realizzare, occorre trovare al proprio agire un altro fondamento. La politica poteva essere assoluta - cioè non aver bisogno di alcun altro sapere o punto di vista ad essa esterno - quando era convinta di dover realizzare quel senso della storia che l´ideologia le garantiva. Senza ideologia non c´è più la vecchia politica, ma rimangono i problemi che essa doveva affrontare: il dar risposta ai bisogni e alle attese collettive. Altro che le illusioni da scienziati della politica moderna e assoluta sulle regolarità della politica e la avalutatività delle scelte.

Parlare di programmi e non di ideologia significa al fondo di tutto parlare di nuovo di etica (non necessariamente quella cristiana certo, ma nemmeno quella dei meri diritti omologa alla vecchia politica moderna) e non solo, scusate la ripetizione, di politica.

Ne hanno consapevolezza i partiti di programma? Si rendono conto che su questo sono chiamati a misurarsi? Che su questo falliranno o riusciranno? Ma che se riusciranno non saranno più nemmeno partiti nel senso in cui lo sono ancora oggi e dovranno reinventarsi ancora? E che se il brillante escamotage del programma fosse solo tale nel loro fallimento e inganno trascineranno tutti?


05/03/1998