Università Cattolica del Sacro Cuore

Referendum, la politica oltre la piazza

Di nuovo un fantasma si aggira per la politica italiana. Quello del referendum. Non è il solito Pannella, è Di Pietro a promettere questa volta la raccolta delle firme: per eliminare la quota proporzionale e giungere così a un sistema maggioritario compiuto. I partiti della seconda Repubblica, che nella loro stragrande maggioranza hanno fatto del ripudio del sistema proporzionale la propria bandiera e la prova del loro virtuoso distacco dalla prima Repubblica, osservano imbarazzati.

Ma non del loro rifiuto d´un sistema che sarebbe del tutto logico se davvero si volesse arrivare a una radicale alternanza fra due parti vorrei parlare. Né del fatto che il contentarsi di un bipolarismo così annacquato come l´attuale la dice lunga sulla difficoltà di semplificare una società che trova nella sua complessità attuale e in quella della sua varia storia e cultura una delle sue ricchezze maggiori. Neanche, da ultimo, vorrei parlare del dubbio che da tutto ciò ne viene sulla plausibilità storica e politica di simili progetti e di quelli di riforma costituzionale ai quali si lavora. Anche se alla fine inevitabilmente ci torneremo.

È proprio il referendum come istituto che merita una riflessione. Può darsi che Di Pietro riesca a raccogliere il mezzo milione di firme che gli serve.

Malgrado ciò il referendum ha probabilmente compiuto in Italia la sua parabola e proprio l´uso che Di Pietro ne vuol fare costituisce di ciò l´ultima prova. Quando i costituenti, quelli del dopoguerra, gli autori di una delle migliori costituzioni del secolo, previdero l´istituto del referendum lo pensarono come un limite contro ogni tentazione di arroganza del potere da parte persino della maggioranza parlamentare.

Non per nulla si trattava di un referendum abrogativo, che interveniva solo dopo l´approvazione di una legge, non di un referendum propositivo. Era troppo vicina a loro l´esperienza del capo che dialoga dal balcone con «la gente» e si fa dare per acclamazione l´approvazione a ogni sua iniziativa per correre il rischio di mettere in mano a qualche demagogo un istituto come il referendum propositivo attraverso il quale poteva essere possibile trasformare l´emozione del momento in scelta e, per di più, mettere in dubbio l´autorità del Parlamento democraticamente eletto, a esso contrapponendo la piazza.

Prevedere il referendum abrogativo era invece un gesto di civiltà e, direi quasi, di umiltà da parte dei costituenti. Era riconoscere che anche i rappresentanti del popolo meglio intenzionati potevano non interpretare correttamente il sentire del Paese. In un Paese nel quale i mezzi di comunicazione di massa si risolvevano ancora nei giornali e nella radio, nel quale la popolazione era disseminata nelle campagne e le distanze non erano ancora state accorciate dalla diffusione dell´automobile, il mezzo milione di firme previsto per proporre il referendum poteva poi apparire una cifra ragguardevole, capace di evitare la riuscita di qualunque iniziativa minoritaria o estemporanea e di permettere la realizzazione solo di quelle serie e davvero largamente sentite.

In effetti fu solo nell´Italia non più rurale degli anni Settanta che il referendum abrogativo trovò effettiva attuazione esercitandosi, a torto o a ragione qui non importa, contro leggi da molto tempo vigenti e che potevano apparire non più rispondenti al sentire del Paese.

Era già un uso diverso da quello pensato dai costituenti, si risolveva piuttosto in un incitamento al Parlamento cui sarebbe toccato fare le nuove leggi piuttosto che in una difesa da sue prevaricazioni, ma si giustificava per la portata dei temi trattati, i quali come il divorzio o l´aborto interpellavano direttamente la coscienza e l´esperienza di ciascuno, andavano oltre, possiamo dire, la quotidianità della politica e toccavano l´etica individuale e pubblica.

Era per certi versi un arricchimento della democrazia italiana quello che così si realizzava.

Era uno strumento in più, ma a patto che restasse eccezionale. Negli anni seguenti si  è assistito invece a un uso del referendum spesso abilmente avvocantesco (come quando si sono proposti quesiti abrogativi di singole parti di una legge per arrivare a farle dire - in caso di successo del referendum - sostanzialmente il contrario o quasi di ciò che il legislatore aveva inteso) e che ha mischiato disinvoltamente grandi problemi e questioni più modeste.

Si è così talvolta data voce a una insofferenza diffusa, come nel caso del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, ma altre volte si è finiti nella incomprensibilità dei quesiti o della loro rilevanza.

Ora addirittura si tende a brandire l´ipotesi del referendum come una sorta di arma contro il Parlamento impegnato nella redifinizione di parti significative del patto fondativo del nostro vivere associato. Il referendum come contropotere insomma, e la piazza contro il palazzo, in un simulacro di democrazia diretta assolutamente non normata come tale e perciò fatalmente impropria. E contraddittoria al tempo stesso oggi con il tentativo di rinsaldare le istituzioni rappresentative cui si dedica la Commissione bicamerale per le riforme.

Ma se queste sono in crisi, lo è infine lo stesso istituto del referendum, come il fallimento degli ultimi progetti, o il rigetto dei quesiti effettivamente sottoposti a giudizio da parte di larghe maggioranze di cittadini, testimonia.

La ragione delle istituzioni, che un finanziamento pubblico dei partiti hanno ad esempio surrettiziamente dovuto inventare, così come un ministero per le Risorse agricole al posto di quello dell´Agricoltura cancellato da un referendum, sembra così confliggere con quella della «piazza» e già indebolita ne viene delegittimata. Ma al tempo stesso la seconda appare sempre meno limpida, testimonia più l´arroganza di una minoranza la quale porta al voto referendario una massa recalcitrante, o la capacità di seduzione di un capopolo, che una esigenza di partecipazione alle scelte. Dal tempo della rivoluzione francese il dibattito sulle forme della democrazia si è sempre aggirato fra rappresentative e dirette. L´assolutezza della politica, la quale non poteva riconoscere altri valori o istanze fuori da sé per il fatto stesso di proporsi come il sapere capace di definire l´interesse generale e lontano, lo impediva. Oggi però entrambe appaiono indebolite, come si è detto, e il sistema sembra poter entrare in fibrillazione fra moti disordinati. Di Pietro senatore dell´Ulivo che sta lottando per le riforme, il quale scavalca il suo polo contrapponendogli il proprio carisma per sollevare «la gente» con un referendum contro gli stessi progetti di riforma di origine parlamentare, ne costituisce la riprova.

E la conferma che ormai o si riesce a pensare un modo di ordinare e dar senso alla vita civile oltre la politica o ci si finisce per avvolgere in contraddizioni senza fine e indebolire sempre più quella democrazia che costituisce la più preziosa eredità della modernità.


05/04/1998