Università Cattolica del Sacro Cuore

Ruffilli aveva capito per primo la crisi dello stato

Nell´aprile di dieci anni fa moriva Roberto Ruffilli, ultima vittima delle Brigate Rosse. Lo cercarono a casa sua a Forlì una domenica pomeriggio. Viveva solo dopo la morte della madre. Si presentarono come postini per una consegna urgente. Lo fecero inginocchiare, alzarono al massimo il volume del Mozart che stava ascoltando, gli spararono. Lo lasciarono a terra nel sangue come cadde, come un animale. Se ne andarono certo contenti. Avevano eliminato un nemico del popolo, uno stratega dello Stato imperialista delle multinazionali. Avevano dimostrato di esistere ancora. Nell´unico modo che conoscevano: la violenza.

Avevano ucciso un uomo buono e mite, un cristiano di serena fede, uno studioso serio e intelligente. Proprio lui che aveva individuato tra i primi in Italia, era il 1980, la crisi dello Stato e aveva gettato lo sguardo oltre il mito della sovranità assoluta, quando la storiografia e la cultura politica per lo più scommettevano ancora sulla lunga durata e buona salute dello «Stato moderno» e l´ultrasinistra colta alla Toni Negri sproloquiava di Stato macchina e sottolineava l´autonomia del politico al fine di smascherare la violenza del potere dietro le forme della democrazia e di legittimare la violenza rivoluzionaria e il contropotere proletario. La ferocia delle Br a sua volta era l´ultima rappresentazione, in quel 1988, un anno appena prima della caduta del muro di Berlino, del moderno mito di Utopia, la promessa di una radicale palingenesi della società nella storia garantita da una ideologica e assoluta conoscenza del senso della storia e perciò del futuro. Era l´ultimo esito di una cultura che aveva sprezzantemente tacciato di bieco conservatorismo e ipocrisia la consapevolezza della ineliminabile complessità della realtà e il rispetto anche delle opinioni che non si condividono propri della cultura cattolica e democratica di cui Ruffilli, teorico del pluralismo, era stato esponente prima nei suoi studi e poi nella breve esperienza politica. Una esperienza fra l´altro che egli confidava di ritenere ormai conclusa.

Non era stata una scelta culturale ovvia la sua. Diceva di sé di aver condotto una interiore e decennale «guerra di liberazione» dalla scoria degli insegnamenti del suo maestro Miglio, da quella versione pur riveduta e corretta del radicale pessimismo di Carl Schmitt, il pensatore nazista che ha affascinato molti a destra e a sinistra con la pretesa di un realismo politico che vedeva nel potere il frutto e l´espressione della forza e, nichilisticamente, nulla più. Una fascinazione questa che aveva portato a contatti scientifici fra qualche allievo di Miglio e quei teorici che come Toni Negri a tali risultati giungevano da una prospettiva marxista.

Ruffilli, che in gioventù si era formato contro tale nichilismo (e suo padre era stato durante il fascismo per qualche tempo esule in Francia) e aveva saputo ritrovare e rivalidare personalmente e originalmente le ragioni della democrazia e di una convivenza civile orientata secondo i valori del rispetto e della tolleranza nonché, come dicevamo, del pluralismo politico e sociale, Ruffilli che questo aveva consegnato ai più giovani formatisi tra la Cattolica, Sassari e Bologna al suo insegnamento - e cui mai chiese obbedienze politiche o accademiche -, Ruffilli fu assassinato così da chi per le vie di un altro estremismo combatteva però quegli stessi princìpi e valori cui egli aveva saputo dare matura adesione.

Egli aveva studiato dapprima il regionalismo come alternativa allo Stato unitario accentrato, poi il rapporto fra istituzioni e società e il ruolo dei cattolici democratici nella storia d´Italia, le caratteristiche e difficoltà dello Stato repubblicano. Lungo questo tragitto aveva incontrato l´offerta di De Mita di occuparsi da senatore alle riforme istituzionali. Dubito che egli si sarebbe ritrovato negli orientamenti e nelle scelte della recente commissione bicamerale per le riforme, ma questo ha forse poca importanza. Quel che più rileva oggi è mantener fermo il metodo del suo lavoro, quel non separa mai la costruzione istituzionale dalla realtà sociale cui quelle istituzioni vogliono dare forma e rappresentanza politica, nel segno di quell´umanesimo antiutopico vivificato dalla fede cui aveva ispirato la propria vita e il suo lavoro e che lo portava a dire, citando Salvemini, che «gli storici hanno cura d´anime». Era una ispirazione, questa, che la vita non gliela aveva certo resa facile. Non nelle vicende private, non nell´università dove la sua indipendenza di giudizio rispetto alla scuola da cui proveniva lo aveva portato, lui di famiglia tutt´altro che ricca, a situazioni anche economicamente difficili e a sopportare con coraggio e fermezza quelle che non solo lui aveva stimato gravi ingiustizie.

Mi volevano prendere per fame, scherzava, ma non troppo, quando le sue qualità di studioso erano infine state riconosciute con la cattedra di storia contemporanea prima a Sassari e poi a Bologna. Ma soprattutto amava sottolineare ai più giovani oltre che a se stesso che alla fine doveva i suoi risultati pubblici al fatto di essersi sempre sforzato di comportarsi correttamente (l´esser stato buono, diceva) e che proprio questo gli aveva fatto incontrare sulla sua strada le persone disponibili a valutarlo e stimarlo.

Scrisse Dag Hammarskjold, il segretario dell´Onu morto in un poco chiaro incidente aereo durante la guerra nell´ex Congo belga, dove aveva voluto che l´Onu intervenisse per cercare una pace giusta, e cristiano di altissima fede: «alle mie condizioni, quelle poste da me; questo significa raggiungere la conoscenza di una linea della vita al prezzo della solitudine». Ruffilli, che la vita amava anche nel piacere dell´amicizia o in quello della buona tavola, non cercava, come nemmeno Hammarskjold, la fine che ebbe, nemmeno si immaginava che essa potesse richiamare un atto di violenza così selvaggia, ma certo aveva costruito una sua coerenza in fondo alla quale anche quell´esito sarebbe stato drammaticamente possibile. Una linea della vita, alle sue - quelle - condizioni: questo è il frutto e l´esempio che egli ci lascia e cui tuttora ci possiamo ispirare.


18/04/1998