Università Cattolica del Sacro Cuore

Squatter, la voglia di stare ai margini

Gli squatters stanno agli anni Novanta come gli autonomi ai Settanta. Entrambi esprimono un disagio senza dubbio, forse un antagonismo sociale, ma dimostrano più le differenze che le somiglianze fra i due decenni, o anche le trasformazioni che la società italiana ha conosciuto nel frattempo. Gli «autonomi» prendevano il nome dall´Autonomia operaia, rivendicavano una alternatività politica fondata sul mito della classe operaia, si pensavano come contropotere del proletariato. Avanguardia che demistificava le libertà formali dello stato borghese e si riappropriava, dai luoghi ai consumi, di ciò che il Potere aveva sottratto alle masse. La marginalità era una scelta, la violenza un metodo per contrapporsi a quella mascherata dello Stato. Lo scontro di piazza era cercato come ripresa del territorio. L´esproprio proletario nei supermercati come risarcimento d´una esclusione.

Gli «autonomi» si pensavano come elaborazione radicale di una cultura politica della sinistra italiana, sua manifestazione più lineare e senza compromessi.

Gli «squatters» fin dal nome inglese rinviano ad un altrove, esibiscono una alterità che vuol essere piuttosto separazione che premessa di reintegrazione collettiva. Lo squatter è colui che occupa o si sistema su un terreno senza permesso, o in un edificio abbandonato senza averne titolo, dice l´Oxford Dictionary. Per via del concetto di proprietà del diritto inglese si tratta di un comportamento entro certi termini giuridicamente riconosciuto (e anche noi conosciamo l´istituto dell´usucapione che in qualche modo a quello si apparenta) e proprio per questo la carica di alternatività dello squatter è là ridotta. È qualcuno che si accontenta di occupare degli spazi lasciati liberi, che sopravvive ai margini e grazie ad essi.

Adottare un simile nome significa dunque esibire una marginalità coscientemente ricercata, un rifiuto della vita sociale per dis/integrazione piuttosto che per progetto. Quando, come qualche giorno fa a Torino, un esproprio proletario esplicitamente esibito si è compiuto, esso si è realizzato non come riappropriazione ma come «festa», partecipazione ai presenti nel supermercato del caviale e champagne preso dagli scaffali. E a riprova di un atteggiamento di rifiuto della società, si sono cacciati i giornalisti dal funerale del compagno morto suicida in carcere qualche giorno fa o li si è irrisi, raccontano le cronache, offrendo loro in altra occasione carne sanguinante (intendendo, non è questo che cercate?). E se di interessi politici si può parlare per gli squatters sono al più quelli propri di un fondamentalismo ecologico, di contropposizione a qualche forma di appropriazione e intervento sul territorio, come quello rappresentato dai lavori elettrici in Val di Susa.

Tornando agli squatters nostrani la distanza loro dai modi di espressione del rifiuto sociale degli anni Settanta è già chiara. I membri del Centro sociale del Leoncavallo di Milano hanno portato la loro solidarietà alla manifestazione degli squatters di Torino, ma chi vada a vedere cos´è oggi il Leoncavallo troverà che il luogo occupato è stato trasformato in un club giovanile non troppo dissimile da molti altri, come notava stupito qualche giorno fa il Corriere della Sera. Ma ciò non è accaduto per caso. Radio onda d´urto, che a quel Centro dà espressione, parla e «porta avanti un discorso» che fa ringiovanire di colpo di vent´anni, fortemente politico e ideologicizzato com´è. Il Leoncavallo ha ottenuto uno spazio e dialoga con le istituzioni perché alla fin fine, con queste, magari via Rifondazione comunista, un linguaggio comune lo può trovare. A suo modo è anch´esso ormai una istituzione. Diverso è il caso degli squatters strutturalmente, come sopra si diceva, dis/integrati e che emergono come fenomeno significativo soprattutto là dove la sinistra o il centrosinistra è al governo.

Così a Torino, così a Bologna. Per dire che il problema va oltre la specificità del caso torinese e della storia di questa città da sempre divisa fra le sue aristocrazie, operaie, intellettuali, manageriali, e prima militari o di corte, e una massa sostanzialmente obbediente e alle prime riconoscente il loro primato.

Commentando gli incidenti della settimana scorsa in via del Pratello a Bologna, ove sono numerose case occupate, Stefano Benni lamentava la mancanza di dialogo, il disinteresse per qualunque forma di dialogo da parte delle istituzioni locali nei confronti degli squatters bolognesi. E gli incidenti bruciavano proprio per questo ai commentatori. Bruciava che nel recente libro Discorso alla città il cardinal Biffi ripetesse le sue accuse alla città di Bologna sazia e disperata. Ma come, scriveva su La Repubblica, edizione bolognese, lo stesso 4 aprile il politologo e già senatore della sinistra Gianfranco Pasquino - un torinese trapiantato a Bologna fra l´altro - «il fondato senso comune... ha da tempo accertato che Bologna sia una città bene amministrata da tempo» e con una qualità della vita «che la situa ai primissimi posti in Italia», e che non è disperata. Come si possono lanciare simili accuse. Salvo poi paradossalmente invitare il cardinale ad assumersi le proprie responsabilità per quanto non va! Salvo soprattutto, come si diceva, dover assistere impotente all´esplodere delle tensioni sociali.

Gli osservatori più sensibili stanno da tempo notando come una fascia crescente di popolazione venga sempre più abbandonata a se stessa, sia, come dicono in Francia, «in fine di diritti». Al di là dei limiti che qualunque politica, per buonista voglia essere, non può non avere il problema è quello che dichiara un uomo certo non sospetto di moderatismo o di malevolenza nei confronti del centrosinistra come Stefano Benni. Non c´è interesse al dialogo da parte della sinistra ufficiale perché non ci sono più le parole per comporlo, non c´è più mediazione fra base e dirigenti, o - se vogliamo - le istituzioni finiscono per saper dar forma a una parte della società e si disinteressano all´altra.

Non si vuole far qui l´esaltazione della marginalità, ripetere le banalità di quella vecchia cultura marxista (ma seducente anche per quei cattolici che orecchiavano malamente la scelta della povertà) la quale trovava reato più grave di rubare a una banca il fatto di fondarla ecc., bensì constatare che la cultura della politica sa sempre meno combinarsi con la vita quotidiana. L´abbiamo visto nel vertiginoso crescere dell´astensionismo alle elezioni di qualche tempo fa, lo vediamo nell´alienazione degli squatters, o in quell´altra sottile forma di violenza sempre più diffusa che si manifesta nei graffiti urbani. Sgorbiare un muro, o una carrozza ferroviaria con il proprio «tag» sembra l´unico modo per far sapere a tutti che io esisto. Ma dicendolo con una firma incomprensibile a chi già non mi conosca lo dico in un modo che sconta una distanza irrecuperabile fra me e gli altri; si risolve in una imposizione coatta del mio esserci agli altri, volenti o nolenti. Come un grido disperato. Sarà banale ripeterlo, che non di solo pane vive l´uomo, ma questa è la realtà. E interpella tutti, ma soprattutto coloro che una responsabilità pubblica si sono assunta.


07/04/1998