Università Cattolica del Sacro Cuore

Stiamo attenti al pensiero unico

È imbarazzante. Economisti e politologi hanno appena finito di spiegarci le meraviglie del sistema giapponese e i prodigi delle nuove tigri asiatiche, l´opportunità di agganciarsi alla Corea piuttosto che di esplorare il mercato malese, e tutto salta per aria e si scoprono gli affanni del Giappone, le bolle speculative dei mercati emergenti. E i problemi che ne derivano per noi apparentemente lontani e incolpevoli. Intanto quegli stessi che esaltavano la liberalizzazione dei mercati, vedevano nella globalizzazione soltanto aspetti positivi, ora per limitare i danni devono sperare nella Cina, la quale per motivi piuttosto diplomatici e di potenza che economici mantenga la stabilità del cambio della sua moneta.

Ben sapendo che lo può fare proprio perché il suo sistema politico non confida nelle virtù del mercato. Se i Chicago boys, i fautori di un liberismo economico tanto più fruttuoso quanto più libero e pervasivo, hanno a suo tempo sconfitto il credo keynesiano in una economia regolata dallo Stato, il quale a sua volta aveva reagito alla crisi della fiducia di principio secolo nel progresso attraverso il mercato degli economisti neoclassici, stiamo per assistere a una nuova oscillazione del pendolo delle ricette economiche? Di nuovo più Stato, o almeno più regole, e meno mercato? O mercato tra parentesi qua e là, in Russia ad esempio?

Gli antichi greci credevano che la precarietà della loro vita dipendesse dai capricci degli dei dell´Olimpo. Noi moderni ci siamo costruiti altri dei, quello supremo del progresso garantito da tecnologia e mercato, e scopriamo sempre più spesso quanto pur´essi siano capricciosi. Ricorriamo infatti anche noi ogni giorno di più ai nostri oracoli, da cui distillare ambigue profezie.

Non chiamiamo guru, maestri spirituali e religiosi cioè, quei maghi (!) dell´economia ai quali chiediamo di illuminarci su ciò che accadrà alla finanza mondiale e con essa ai nostri risparmi e investimeni? Ma l´economia non è una scienza? Come tale almeno la si studia e gli economisti la propongono. La colpa in realtà non è degli economisti, ma nostra che abbiamo assolutizzato un sapere tecnico e valido entro i suoi limiti facendone, perché prometteva l´equivalenza di progresso economico e felicità, la scienza della società. Una società tra l´altro, di cui nega per principio l´esistenza entro i propri paradigmi. Non c´è un soggetto economico che si chiami società. Una fede paradossale la nostra dunque.

Virginia Woolf in un suo appunto ricordò una riflessione di Keynes nel 1934 secondo il quale forse la demolizione del cristianesimo cui anch´essi avevano concorso non era stata opportuna. Egli notava quanto la loro generazione dovesse nel suo modo di vivere alla fede dei propri padri. I giovani cresciuti senza quell´eredità non sapranno mai vivere con eguale moralità, temeva. E concludeva: «Noi abbiamo avuto il meglio dei due mondi. Abbiamo distrutto la cristianità e però ne godiamo ancora i benefici».

Quel che Keynes lamentava svanire era per l´appunto il senso di appartenenza a una società garantito dal dovere morale verso gli altri instillato dal cristianesimo. Non che il cristianesimo si possa ridurre ad etica, ma è ben difficile trovare ragioni di autolimitazione in un sistema di pensiero orientato dal sapere economico, e tanto più quanto più questo diventa pervasivo e invita a intendersi come soggetti economici che devono massimizzare i propri risultati e competere indefinitivamente sul mercato con gli altri.

Malgrado la fede nel progresso stia assumendo sempre più i tratti di una superstizione (dovendo ricorrere ai maghi), nessun Governo europeo può ancora osare di metterla in discussione apertamente per la profonda radice che ha messo nel nostro modo di vivere e pensare. E tuttavia non vi è dubbio che la questione della società - che è anche la questione della famiglia, dell´educazione, di ciò che è comune e di tutti, è la questione dello stare insieme come collettività - dovrà esser posta con sempre maggior evidenza al centro della riflessione senza immaginare di poter chiedere all´economia e al sapere economico le soluzioni. Anzi usando dell´economia per quanto, e nei limiti tecnici che essa e i suoi guru/scienziati possono dare, volta per volta. Strumento, non fine, nemmeno regola ultima. E tenendo presente invece quella regola della misura, quel senso morale cioè del limite delle proprie azioni e di quelle collettive con il quale i greci ritenevano di poter sfuggire alla caoticità degli dei; e con il quale noi forse possiamo fronteggiare ragionevolmente e responsabilmente la complessità del nostro mondo, senza distruggerci in un individuale si salvi chi può, in un superstizioso affidamento a ragioni economiche, e in un egoismo che, come ben sapeva Keynes, tradisce in fondo le stesse ragioni della nostra identità e in definitiva ci sottrae il futuro.


22/09/1998