Università Cattolica del Sacro Cuore

C´erano una volta i giochi nel cortile di casa

Una indagine ministeriale recentissima ha stabilito che fra tutte le città e i paesi d´Italia sopra i quindicimila abitanti meno di venti sono a misura di bambino. Appare paradossale che quella stessa società la quale sembra pronta alle soluzioni più ardite per assicurare la maternità a ogni costo, sia poi così poco sensibile alle esigenze di quegli stessi bambini una volta che essi siano nati. E lo diventi sempre meno, perché sempre più intollerante di comportamenti infantili giudicati per ciò stesso fastidiosi.

Si pensi al divieto quasi generalizzato ormai di utilizzare i cortili condominiali per il gioco. Giusto garantire la quiete in determinati orari, ma un divieto permanente non ha a che fare piuttosto con una idea di «signorilità» astratta nella quale non c´è posto per il «disordine» infantile? Tanto più che nessun amministratore fa rispettare con altrettanto rigore i limiti del silenzio notturno alle televisioni, tanto per dirne una, o pone limiti a quei rumorosissimi allarmi tarati in modo così sensibile da scattare ad ogni minima (e quasi sempre innocua) variazione.

Così come vi è più tolleranza per i cani - liberi malgrado ogni regolamento comunale e minimo principio di rispetto per gli altri di lasciare escrementi ovunque per le città - che per i bambini, ai quali la città è sempre più interdetta e «confinati», ben che vada, in appositi parchi giochi. Al punto che nemmeno l´andare a scuola può più esser lasciato loro. Addirittura davanti alle scuole medie si vedono genitori in attesa di caricare in macchina i figli.

E non credo che essi pensino ai pericoli estremi - e voglio credere per lo più immaginari - del rapimento o del malintenzionato. Il rischio cui vogliono sottrarre i figli è quello della normalità quotidiana della città del tutto estranea alle esigenze dei bambini stessi: è il rischio degli automobilisti arroganti nel guidare (e parcheggiare), è quello d´una indifferenza generalizzata, che fa pensare i figli del tutto soli di fronte a qualunque imprevisto o pericolo pur in mezzo alla gente. È contro questa mancanza di solidarietà che i genitori protestano ingigantendo i loro timori, e trovando la soluzione nel tenere i figli sempre più sotto controllo stretto e continuo. Poiché però non li si può tenere continuamente chiusi in casa, a giocare solo con amici superselezionati, ecco allora la ricerca di soluzioni diverse, a cominciare dal caricare sulla scuola ogni preoccupazione educativa e no.

La più ovvia sarebbe certo quella di orientarsi a forme di socializzazione alternativa e creativa, capaci di usare la città stessa. E penso, per fare un esempio, agli scouts, specie urbana quant´altra mai e capace di rovesciare i limiti della città stessa in opportunità.

E però in simili luoghi all´impegno delle famiglie non si fanno sconti, essi richiedono compartecipazione educativa e corresponsabilità. Meno impegnativa può essere un´altra scelta, quella dei mille corsi che offrono un menù amplissimo, adatto ad ogni gusto. Non vi è dubbio che essi possano essere tutti utili, ma non quando divengano il surrogato monetizzato di una dimostrazione d´affetto e di una cura personale. Una sorta di coatta scorciatoia educativa. E non solo questo. C´è un brano ironico e illuminante in un´opera di Pennac («Come un romanzo»). Descrive una coppia di genitori che si recano a colloquio con il professore di lettere a difendere il figlio che purtroppo non ha voglia di leggere. Eppure gli abbiamo proibito la tv, affermano virtuosamente (e Pennac commenta: «ecco un´altra possibilità: l´interdizione assoluta della tivù. Risolvere il problema sopprimendo l´enunciato, l´ennesima gran trovata pedagogica!»). Ma, se niente televisione, «pianoforte dalle cinque alle sei, chitarra dalle sei alle sette, danza il mercoledì, judo, tennis, scherma il sabato, sci di fondo ai primi fiocchi di neve, ceramica i giorni di pioggia, viaggio in Inghilterra, ginnastica ritmica...». Evidentemente tutto il mondo è Paese, la Francia di Pennac come l´Italia, e questo non è molto consolante.

Bambini come trottole, e genitori isterici a rincorrerne gli impegni di cui li hanno caricati.

Ma ancora pazienza, se il problema più grave non fosse che tutto ciò finisce per ricadere sui bambini stessi nel senso, e cito ancora Pennac, di «nessunissima possibilità lasciata al più piccolo quarto d´ora di faccia a faccia con se stesso. Guerra al sogno! Dagli alla noia! La bella noia... La lunga noia... Che rende possibile la creazione...».

Ai bambini si corre insomma il rischio di insegnare che tutto quel che si fa deve essere utile e finalizzato a qualcosa; e soprattutto che il maggior rischio che si possa correre è di restar soli con se stessi, di dover trovare dentro di sé gli stimoli e le invenzioni, la pena peggiore il non poter consumare. E il paLa creativitàrametro di ogni verità personale e sociale nella quantità del consumo, nella riduzione di tutto a consumo e tecnica, dallo sport alle lingue.

Forse bisognerebbe far leggere quel piccolo gioiello di Joseph de Maistre che è il «Viaggio intorno alla mia camera», col suo inno al meraviglioso paese della fantasia, con la sua considerazione (ufficiale dell´esercito, era stato condannato agli arresti domiciliari) che «oggi dunque sono libero, o piuttosto - dovendo uscire dalla camera - sto per riprendere le mie catene! Il giogo degli affari sta per piombarmi addosso di nuovo: non potrò fare un sol passo che non sia controllato dalla convenienza e dal dovere».

Abbiamo cominciato con un paradosso che quotidianamente sperimentiamo. Finiamo con un altro, suggerito dalle parole di De Maistre. Mentre tutta la nostra società esalta il creativo e la creatività, ne fa un valore quasi assoluto, nella pratica corriamo il rischio di sottrarre ai nostri figli anche quella poca o tanta di cui loro stessi potrebbero godere, e con essa la capacità di incontrare davvero non solo se stessi ma anche gli altri.


20/02/1999