Università Cattolica del Sacro Cuore

La monarchia della superpotenza

La guerra nella ex Jugoslavia sta scivolando come su un piano inclinato ineluttabilmente verso il peggio: più pulizia etnica e più bombe, più rifugiati e più soldati, fino allo scontro di terra cui preludono gli invii di nuovi mezzi e truppe. Clinton e la Nato pensavano forse che bastasse l´esibizione della forza per fermare la Serbia, ma il conto si è rivelato sbagliato e le due parti si trovano ora reciprocamente impegnate e quasi costrette ad accrescere il loro impegno in un confronto rispetto al quale le ragioni originarie sembrano perdere di importanza. Al tanto peggio tanto meglio di Milosevic, che rinsalda nel sentirsi vittima la comunità serba, la Nato non può che rispondere indurendo sempre più i muscoli: più che gli albanesi del Kosovo - nessuno dei quali è scappato verso la Serbia bisogna peraltro notare, a riprova che da quella parte non si aspettano niente di buono - il problema diventa quello del non perdere la faccia.

Una volta scelta l´opzione militare è difficile sottrarsi alla sua logica. Non è una questione nuova: ci si confrontò già il primo potere mondiale dell´età moderna. Nella Spagna tra Cinque e Seicento si affrontavano infatti due partiti, quello della guerra e quello della reputazione. Come la freccia che una volta scoccata o sale o cade ma non può star ferma in aria, così - dicevano i primi - solo accrescendo continuamente, con la guerra dunque, il territorio soggetto al re di Spagna si può evitare la decadenza. Rispondevano gli altri che l´importante era la reputazione di cui si godeva e che esistevano molti modi per conservarla. A giudicare dalle notizie riferite dal «Washington Post», secondo le quali i militari americani avevano sconsigliato la guerra e indicato piuttosto la via delle sanzioni economiche per fermare la Serbia e salvare i kosovari, anche il nuovo potere imperiale si è trovato a sciogliere il dilemma antico. Allora perché l´equilibrio fra le nazioni non c´era, adesso perché non c´è più, come fa la superpotenza a essere riconosciuta monarchia universale? Ovvero come fa a far accettare un proprio di più di diritto a giudicare e intervenire nelle faccende del mondo rispetto a quello di tutti gli altri? Facendo spicciativamente la guerra e vincendola o trovando altre strade?

Merita di essere letto un libro recentemente tradotto in italiano di Franz Bosbach il quale ha ricostruito proprio il senso e l´uso di quella nozione di monarchia universale che andò in disuso dopo aver dominato l´età moderna quando si affermò con la pace di Westphalia nel 1648 l´idea di un equilibrio fra gli Stati; e la quale ora sembra tornare a proposito nel nostro mondo postmoderno ove equilibrio più non c´è. Un mondo nel quale i termini dei problemi politici sono così radicalmente mutati dalla caduta del muro di Berlino in poi da creare effetti paradossali come in Italia, dove gli eredi della tradizione comunista e di un tanto insistito pacifismo del passato finalmente al governo si trovano subito a dover sostenere le ragioni della guerra, o come in Inghilterra dove l´alfiere della terza via Blair rinsalda i legami con gli Usa sotto il segno di una comunità atlantica di destino. Le differenze politiche tradizionali sembrano sempre più incapaci di dar senso alle scelte che ci troviamo a dover fare e al tempo stesso coinvolgono nella loro crisi quelle ipotizzate come nuove. Che peso può avere un´ipotesi di Ulivo mondiale tra un cautelosissimo Prodi e uno scatenato Blair, e come la mettiamo persino sotto l´asinello se anche Di Pietro è a favore del mostrare i muscoli alla Serbia? Chi sono e cosa pensano insomma i nuovi democratici?

Il fatto è che come nel mondo dell´antica monarchia universale la legittimazione politica è sempre meno politica e sempre più d´altro genere, o meglio deve proporsi come più che politica, come radicata nell´etica. E però non basta dire no alla vecchia politica per essere automaticamente nel giusto e nel nuovo. Non basta dire, come scriveva il poeta, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. I partiti e le ideologie del passato possono avere sempre meno senso, ma etica e politica non per questo si possono confondere. Una mediazione tra i princìpi e le circostanze è pur sempre necessaria. È quella virtù politica per eccellenza, avrebbero detto gli europei del Cinquecento, che si chiama prudenza. Tant´è vero che per indicare l´eccellenza di Filippo II re di Spagna (e la sua legittimità a porsi come monarca universale) i suoi apologeti lo chiamarono il re prudente. Ma quella prudenza era già vecchia allora nella tradizione culturale europea, venendo addirittura dalla cultura greca, da Aristotele in particolare.

Quella modernità otto-novecentesca, che tanto sicura di sé ha ritenuto di poter tagliare i ponti con la tradizione, si trova oggi a doverci di nuovo fare i conti. E prendendone coscienza può probabilmente trovare una via d´uscita all´impasse in cui si trova. Sarà il caso di tornarci sopra un´altra volta, ma vi è un esempio di tutto ciò straordinario. Nei giorni scorsi si è parlato di ritorno di papato e impero come attori politici osservando la capacità della Santa Sede di proporsi come mediatrice e di avanzare una linea diversa da quella della Nato e però non pregiudizialmente favorevole a Milosevic. Ma il Medioevo non è il riferimento giusto. Non siamo di fronte infatti a una riedizione del condominio sul mondo dei due poteri come allora si pensava. Se la Chiesa si muovesse in simile prospettiva oggi finirebbe per soccombere di fronte alla nuova monarchia universale, così come il papato cinque-seicentesco alla fin fine doveva fare nei confronti della Spagna. E se non si possono trarre troppe conseguenze dal fallimento delle mediazioni della Santa Sede in Jugoslavia, tuttavia qualcosa esso pure ci dice in proposito, così come il fatto che si sia ricordata - un po´ troppo semplicisticamente, è vero - alla stessa Santa Sede una maggior propensione all´intervento militare quando di mezzo c´era la Croazia cattolica.

Oggi il ruolo della Chiesa, grazie al cielo svincolata da ogni forma di potere temporale - di Stato della Chiesa - diversamente da quella medievale e dell´età moderna, non può che essere quello molto più forte di stare come altro dal mondo, di essere voce profetica che annuncia agli uomini una verità che è sempre oltre le contingenze e rispetto alla quale tocca loro orientarsi nelle scelte concrete, quelle che agli uomini stessi toccano. E che anche alla guerra possono portare sia pure con sofferenza. C´è in questo anche uno spazio e una necessità per i cristiani di impegno in modi e forme nuove in politica oltre la crisi del vecchio cattolicesimo politico su cui pure sarà opportuno ritornare.

Per ora concludiamo solo ricordando che la pretesa di essere monarchia universale portò la Spagna bellicista del primo Seicento alla sconfitta, e a quella decadenza che tanto paventava.


09/04/1999