Università Cattolica del Sacro Cuore

Quando il Governo è costretto a rincorrere i problemi

Nel recente soprassalto di interesse per la flessibilità del lavoro colpiscono due dati. Il primo, più banale se vogliamo, è che il Governo sembra costretto in questo periodo sempre alla rincorsa, come se l´agenda delle questioni gli venisse continuamente imposta dall´esterno. Così che a una iniziale ripulsa del tema - quale che esso sia - segue l´accettazione dello stesso, con il corollario di una certa confusione di posizioni in proposito nella maggioranza. Lo si è visto pure sulla questione delle pensioni, o su quella della sicurezza, altezzosamente messa da parte (legge e ordine non era una parola d´ordine di destra?) fino a farsi scavalcare dagli stessi sindaci di centrosinistra come Corsini a Brescia, pronto a mettere coraggiosamente da parte ogni remora (pseudo) ideologica per guardare in faccia una realtà ormai insostenibile e proporre pragmaticamente un lavoro comune fra i sindaci di qualunque orientamento.  Ma il guaio vero non sta nei riflessi spesso ritardati del Governo.

Se così fosse, la soluzione sarebbe a portata di mano. Un cambio di maggioranza alle prossime elezioni e il gioco sarebbe fatto.  Il secondo dato che si trae dal dibattito sulla flessibilità, il più importante, ci dice invece che la faccenda non è così semplice. È vero infatti che il tema è stato imposto da forze, più sociali che politiche va notato, di opposizione, ma è anche vero che tutto ciò accade in maniera disorganica, quasi più per strappare un vantaggio particolare che entro un disegno e una consapevolezza complessivi delle trasformazioni della società. Non vi è dubbio che può essere utile intervenire su rigidità contrattuali e tutele formali del lavoratore, le quali mal si adattano ai nuovi sistemi di produzione, rendono difficile l´innovazione e il sostenere la concorrenza estera, ma non è pensabile che simili eventuali misure di maggior flessibilità vengano prese isolatamente, senza considerare il sistema entro cui erano state pensate.  Aumentare la flessibilità, il ricorso al part-time, al lavoro interinale, differenziare i salari per aree geografiche e così via, significa infatti certo una maggiore agilità della produzione ma con due conseguenze: o quella di scaricare i costi sociali implicitamente inscritti in quelle garanzie sullo Stato, o lasciare una quantità crescente di cittadini con tutele sempre minori e conseguentemente rischi di disgregazione sociale in prospettiva sempre più alte.

Pensiamo ai periodi di eventuale intervallo fra un lavoro e l´altro e, più ancora, all´eventualità di incidenti o malattie, o invalidità. Che prospettive possono dare rispetto a tutto ciò le nuove auspicate forme di lavoro? In una visione culturale che faceva perno sulla grande industria e la fabbrica come fattore di progresso, la scelta di appoggiare sulle imprese, immaginate come destinate sempre a crescere in forza e dimensione, taluni costi sociali potevano essere sensati. E di fatto è stato uno degli elementi tipici di composizione del welfare state non solo in Italia. Ma la trasformazione del sistema produttivo se obbliga a sgravare delle imprese che sempre meno assomigliano al prototipo della Fiat (per intenderci) da simili carichi, non comporta che le esigenze di garanzia degli individui scompaiano con il sistema di fabbrica stesso. Vanno pensate dunque assieme alla flessibilità forme magari anch´esse nuove, ma effettive, di assistenza e previdenza. Potranno richiedere una maggiore responsabilità di scelta e impegno del singolo, o delle comunità locali, rispetto a quelle automatiche di oggi, ma sarebbe illusorio o disonesto immaginare che lavoratori più deboli che per il passato possano provvedere solo con le proprie forze a garantirsi contro gli eventi negativi della vita.  Piuttosto dunque che battaglie ideologiche su flessibilità sì o flessibilità no, destinate a risolversi alla fine quasi ineluttabilmente in flessibilità sì, il problema è cosa mettere accanto alla flessibilità, come ridisegnare l´appartenenza alla società di tutti i cittadini.

Certo si può fare gli sbarazzini e dire «competition is competition» anche per queste faccende e indicare nel dio mercato - e in un individualismo esasperato come quello che traspare dalle iniziative dei referendum radicali - quello che troverà ogni soluzione. Ma i costi di simile soluzione sono proibitivi per noi. Già ci lamentiamo adesso della crisi della cittadinanza con tutte le conseguenze che ne derivano (compresa la disaffezione per la politica o l´insicurezza e le uscite verso la criminalità di cui sopra), possiamo immaginare che succederebbe in una società nella quale la forbice fra garantiti e non garantiti si allargasse troppo. Non foss´altro perché viviamo in organismi delicati come le nostre città, in territori con spazi ristretti che non consentono la fuga verso l´altrove dei suburbia alla maniera americana. E d´altro canto, come ha rilevato Corsini rispetto a Brescia, già ora l´incapacità progressiva di mantener vivo il centro storico della sua città ha effetti devastanti per tutti. E bisogna pure aggiungere che la generalizzazione della formula «la competizione è la competizione» implica al fondo la messa in discussione della stessa esistenza di qualcosa che sia società, ovvero la riduzione della vita degli uomini a quello stato di natura fatto di incertezza e di uomo lupo per l´uomo, in contrapposizione al quale la politica moderna si è legittimata come creatrice e tutrice di uno stato «civile». 

Chiudendo il cerchio della crisi insomma, i teorici dell´individualismo e della competizione come regola assoluta finiscono per negare programmaticamente quel che vorrebbero raggiungere attraverso la loro ricetta: una società più ricca e vitale. Sarebbe opportuno che discutendo di flessibilità tutto ciò si tenesse presente, da entrambe le parti.


14/09/1999