- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 1999
- Quando il Grande Timoniere affascinò e illuse l´Occidente
Quando il Grande Timoniere affascinò e illuse l´Occidente
«La Cina è vicina» annunciava negli anni Sessanta un famoso film di Marco Bellocchio e in effetti allora e per alcuni anni quel Paese fu molto presente nell'immaginario degli italiani, i quali ne potevano sapere soltanto quel che i cinesi volevano far sapere, o vedere a selezionatissimi visitatori, come il giovanissimo D'Alema; ma tanto a molti bastava per entusiasmarsi. Fu dopo la rottura con l'Urss nel 1960 e gli scontri successivi sul fiume Ussuri che Mao acquistò una rilevanza culturale particolare.
Di fronte all'incrinarsi del modello sovietico per la denuncia delle atrocità staliniane e la crisi strisciante del socialismo reale, fra diversi di coloro che riponevano le proprie speranze nel comunismo la Cina apparve come la risposta giusta ai dubbi europei. Soprattutto affascinarono quelle parole d'ordine e quelle scelte - poi rivelatesi disastrose - che sembravano venir incontro alle ansie purificatrici di una intellettualità - Moravia per tutti - convinta della decadenza occidentale così come al desiderio giovanile di una militanza politica senza compromessi e tatticismi. I cosiddetti medici scalzi, le comuni, gli altiforni disseminati nelle campagne a produrre quanto gli impianti abbandonati dai russi non potevano più, l'andare verso il popolo, il sospetto verso gli intellettuali chiamati a svolgere perciò anche lavori manuali, l'idea di un Paese sterminato che segue appassionatamente e concorde le parole d'ordine del «Grande Timoniere»: fioriscano cento fiori, il grande balzo in avanti; fino alle guardie rosse e all'invito loro fatto a sparar sul quartier generale, e la rivoluzione permanente.
E su tutto quell'iconografia di Mao, ossessivamente riprodotta, con quegli abiti a mezzo tra la divisa militare e la veste religiosa, il viso largo e il sorriso benevolo, che marcia gigante avanti al suo popolo, lo zio buono e affettuoso. «Viva Marx, viva Lenin, Viva Mao Tse-Tung» gridava uno slogan tra i più ripetuti della contestazione studentesca, additando in quello che solo più tardi si sarebbe imparato a chiamare più correttamente Mao Dse Dong (o qualcosa di simile), il continuatore ultimo del pensiero marxista e la guida attuale dello stesso. Già allora non mancavano evidentemente osservatori meno partecipi, ma quando l'anziano professor Paratore all'Università di Roma propose per l'esame scritto di latino la traduzione di varie massime tratte dall'allora famosissimo «libretto rosso» del presidente Mao che ripetevano la tradizione confuciana di rispetto per gli anziani, di obbedienza ai superiori e così via, causò non una riflessione ma un putiferio in aula per quella che venne ritenuta una provocazione. E lo era certamente, ma perché poneva in luce quegli aspetti del pensiero e del comportamento di Mao che contrastavano non tanto con la realtà di lui che si ispirava al modello degli imperatori cinesi - la cui storia rileggeva compulsivamente negli anni della vecchiaia - e appoggiava il suo marxismo sulla cultura tradizionale del proprio Paese, ma con l'agiografico modello che a uso italiano ed europeo se n'era fatto. Oggi il Dalai Lama è ospite ambitissimo di qualunque manifestazione tanto a destra che a sinistra, ma allora la brutale conquista del Tibet e la distruzione di un popolo e di una cultura, apparivano a molti come l'ingresso del progresso in un'area rimasta feudale e la fine dei monaci non impressionava proprio. Anzi. E d'altro canto Einaudi non pubblicava in quegli anni il libretto di Snow «Stella rossa sulla Cina» che raccontava di come armoniosa pur nella povertà fosse la vita dei cinesi, redenti e convinti anche gli antichi sfruttatori e controrivoluzionari?
Insomma, ancora una volta dopo il tramonto di altri miti, nella Cina si cercava un altrove utopico, un luogo della fede più che della storia secondo un movimento continuo nel Novecento di ricerca dell'assoluto nella politica. Ancora una volta nel mito del «Grande Timoniere» si riproponeva il volontarismo carismatico e l'adesione fideistica che aveva affascinato i seguaci del Duce, del Piccolo Padre (detto anche Stalin, cioè duro come l'acciaio), del Fuhrer. Si riproponeva tutto ciò altresì nella correlata polemica antiintellettualistica, nella contrapposizione vitalistica fra intelletto e corpo, fra ragione e passione. Era il fantasma della sintesi ragionevole e raziocinante che la tradizione occidentale aveva costruito intorno all'individuo, alla sua responsabilità non delegabile e alla sua crescita umana attraverso un sapiente controllo e uso delle passioni da parte delle virtù quello che si voleva esorcizzare. Quel fantasma, cioè, tanto combattutto da una modernità incapace tuttavia di dargli soddisfacente alternativa. Sognando la Cina il problema era quello di trovare una forma del vivere che nell'annullamento dell'individuo entro la massa lo sollevasse dalla fatica di cercare, di crescere e ne appagasse insieme le aspirazioni più profonde.
Oggi non è più in Cina che si cerca quella soluzione nuova la quale, come l'araba fenice che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa, ma il problema di un vivere a disagio entro la nostra storia, anche per mancata consapevolezza della medesima, rimane. Rimane nell'esaltazione del misticismo come annullamento della volontà e dissolvimento dell'io proposto da intellettuali cattolici, nell'invito a «lavorare fino a scoppiare» scritto sui muri di un'associazione per il Terzo Mondo o infine nella dichiarazione che «il liceo classico ci ha corrotti», come dichiarava tempo fa il ministro Berlinguer reclamando più spazio per la manualità. La Cina è di nuovo lontana, ma nessuno per tanto che vada può andare lontano da se stesso e con se stesso fare i conti.
28/09/1999