Università Cattolica del Sacro Cuore

Quanti orrori nei primi cinquant´anni

I primi anni del Novecento sono passati alla storia come la belle époque.

Un po' come gli anni che avevano preceduto la rivoluzione francese di cui si rammentava poi la dolcezza del vivere, quelli che precedettero la prima guerra mondiale apparvero soprattutto ai sopravvissuti di quell'immenso macello come un tempo felice e fiducioso, ignaro di tristi profezie, proteso al progresso tecnico, stupefacente per le novità che quasi ogni giorno  portava di nuove conoscenze, di crescente benessere e più diffusa istruzione. E per di più sembrava che pure del «fardello dell'uomo bianco»  di cui parlava Kipling per pesante potesse essere non si potesse non andare orgogliosi. Consisteva infatti nella fatica, coscientemente e seriamente assunta, di civilizzare il mondo intero, di ridefinirlo a immagine e somiglianza dei progressi europei e americani, di farlo entrare nella modernità. E' vero che nel 1902 Conrad descriveva in «Cuore di tenebra» la discesa all'inferno dello stesso uomo bianco nello sfruttamento delle popolazioni indigene del Congo, ma l'anno prima Kipling in «Kim» aveva pur dato una lettura avventurosa e gioiosa del «grande gioco» fra inglesi e russi nell'Himalaya e ottimistica dell'incontro fra le culture occidentale e orientale, di cui lo stesso personaggio Kim era espressione.

E come negare che tensioni e affanni vi fossero: nell'anno 1900 veniva assassinato re Umberto I (e l'anno dopo il presidente americano McKinley), i boxers  in Cina assediavano le legazioni occidentali e massacravano i missionari e i cinesi convertiti, dappertutto si levavano voci di riforma sociale, e però sembrava pure che nessun problema fosse davvero insolubile.  Riguardando indietro a quegli anni ci rendiamo conto in effetti che tanto sul piano della riflessione teorica quanto su quello dei dispositivi pratici le soluzioni trovate allora avrebbero costituito la base per gli svolgimenti e le ricette di tutto il secolo: dallo stato sociale al partito di massa, dal riannodato rapporto fra religione e modernità alla ricomprensione scientifica della natura oltre la fisica classica con Einstein e  Max Planck, e così via.
Nel 1914 la prima guerra mondiale avrebbe tuttavia liberato anche i demoni che l'apprendista stregone aveva coltivato, talvolta con le migliori intenzioni, negli anni precedenti.

Già la guerra russo-nipponica del 1905 - ove per la prima volta una potenza europea veniva sconfitta in guerra regolare da una orientale - aveva mostrato la potenza distruttiva della tecnologia moderna, ma la «Tempesta d'acciaio» evocata da Junger a sintetizzare la grande guerra superò ogni previsione, di durata, costi umani e devastazioni; soprattutto distrusse l'equilibrio e le speranze dell'anteguerra. Scomparivano tre imperi storici come quello asburgico, lo zarista e l'ottomano, e al loro posto nascevano in Europa e in Medio Oriente nuove aggregazioni territoriali alla difficile ricerca di un proprio ruolo, in Russia si tentava fra gli spasimi della guerra civile l'avventura della rivoluzione sovietica; la Germania prostrata cercava con fatica una via democratica con la Repubblica di Weimar, e nemmeno i vincitori stavano davvero bene. 

Gli Usa, intervenuti per la prima volta nelle faccende europee a fianco degli alleati contro gli imperi centrali dopo aver patrocinato la nascita della Società delle nazioni nel 1920 con l'idea di stabilire un luogo di incontro che impedisse la degenerazione bellica delle contese fra gli Stati, si ritiravano nell'isolazionismo a coltivare la propria supremazia nelle Americhe, l'Inghilterra doveva piegarsi a concedere l'indipendenza all'Irlanda, la Francia non sapeva superare la propria sindrome di rivalsa nei confronti della Germania mai abbastanza umiliata e indebolita, l'Italia infine spossata dallo sforzo bellico riteneva di non aver ottenuto le giuste ricompense per il proprio impegno e parlava di vittoria mutilata.

La nazionalizzazione delle masse - cioe la nuova consapevolezza della propria fondamentale partecipazione alla politica da parte di quei milioni di uomini chiamati a combattere e morire per una patria fino ad allora spesso vaga e lontana nella loro coscienza -  cambiava infine radicalmente i termini del governare in tutti i Paesi. E non dappertutto le democrazie liberali d'anteguerra avevano la forza e la legittimazione sufficiente per incanalare nei propri istituti e dentro le proprie regole tali nuove rivendicazioni come sarebbe accaduto in Francia e Inghilterra aiutate altresi dai loro imperi coloniali in termini tanto economici che di sfogo e prestigio. In Italia in particolare, come sappiamo, la debolezza dell'élite liberale e la miopia della Corona permisero dopo che i momenti peggiori del ribellismo sociale a sinistra erano passati (l'occupazione delle fabbriche con aspetti preinsurrezionali s'era consumata nell'estate 1920) la conquista antidemocratica del potere con la cosiddetta marcia su Roma al movimento fascista guidato dall'ex socialista Benito Mussolini nell'ottobre del 1922.

Nasceva allora un regime che si sarebbe consolidato lungo tutti gli anni Venti conquistandosi nei Trenta un largo favore popolare (anche grazie alla conclusione nel 1929 del contenzioso con la Chiesa lasciato aperto dallo Stato liberale e all'esaltazione nazionalistica attentamente coltivata a risarcire antichi complessi di inferiorità e culminata nel 1936 con il ritorno dell'impero sui colli fatali di Roma - come avrebbe detto Mussolini - a seguito della conquista dell'Etiopia) e che soprattutto avrebbe costituito una plausibile alternativa per molti anche fuori d'Italia - per Hitler e la Germania sopra tutti dal 1933 - alle fatiche della democrazia.

L'alternativa fra le due guerre si sviluppò infatti tra il complicare lo Stato perché sapesse accogliere le maggiori e diversificate esigenze della nuova società di massa e il semplificare la società per inquadrarla senza residui nell'armatura d'uno Stato più forte e gerarchico di quello prebellico. Sul piano pratico talune soluzioni furono comuni a entrambe le scelte: molte sono ad esempio le consonanze fra l'interventismo dello Stato nell'economia patrocinato dal New Deal roosveltiano e teoricamente argomentato da Keynes in Inghilterra, e lo sviluppo delle partecipazioni statali - con lo strumento dell'Iri - in Italia o con la pianificazione quinquennale sovietica o il dirigismo nazista, e molte sono le comuni conseguenze di sviluppo della società in senso industriale e modernizzante.  E però alla lunga la questione della democrazia politica si sarebbe dimostrata inaggirabile al fine di governare la nuova società di massa e impossibile ogni riduzione della complessità raggiunta imponendo fini prepolitici o mitici alla società stessa, si sostanziassero della superiorità della razza, del carisma personale del Duce che ha sempre ragione o del perfetto comunismo.

Non per nulla nell'Italia dei tardi anni Trenta un personaggio dai rapporti tanto ambigui - e in concorrenza - con il regime come padre Gemelli incoraggiava, a sua volta autorevolmente appoggiato dalla Santa Sede, il lavoro di messa a punto d'una teoria del cattolicesimo democratico da parte dei giovani studiosi dell'Università Cattolica. Prima però che le ingannevoli seduzioni del totalitarismo tramontassero ci sarebbe voluta un'altra tremenda guerra mondiale prolungatasi poi per altri lunghi anni nella guerra fredda. Così che per certi versi solo con la caduta del Muro di Berlino si concludono le conseguenze di quella che sarebbe rimasta nella memoria come «la grande guerra», l'ultima quasi tutta europea, la prima dell'età globale.


08/12/1999