Università Cattolica del Sacro Cuore

Questa politica a quattro zampe

Esaminando la lista dei simboli presentati a contrassegnare i diversi partiti per le prossime elezioni europee viene irresistibilmente in mente una canzoncina. Quella che racconta dell´arca di Noè, dove «ci son due coccodrilli ed un orangotango, due piccoli serpenti, un´aquila reale, il gatto, il topo, l´elefante: non manca più nessuno, solo non si vedono i due liocorni».

Ed in effetti anche tra i simboli i liocorni mancano. D´altro canto è naturale: rappresentando nel bestiario tradizionalmente la verginità che sarebbero stati a fare in un insieme nel quale, a giudicare dalle variazioni sul medesimo tema, di innocenza ne è rimasta poca? Quattro scudi crociati, due garofani, due falci e martello, tre leoni di San Marco, più uno rampante, tre fiamme (e un fascio littorio), due bandiere italiane, e un´altra che spunta sotto quella rossa. Tutto un sottrarsi referenze e accavallarsi di storie, tutto un assomigliarsi per distinguersi e, se possibile chissà, trarre in inganno l´elettore distratto. Bei tempi quando solo i socialisti si dividevano e quasi ad ogni elezione si moltiplicavano le loro liste, e animali non ce n´erano e il mondo vegetale era rappresentato dalla solitaria edera repubblicana. Adesso ci sono anche una rigogliosa quercia, una stella alpina, la rosa e i garofani. Manca solo l´ulivo - per il quale forse vale il discorso dei liocorni - . Senza dubbio però l´avanzata più travolgente è quella da cui siamo partiti, degli animali: leoni, l´abbiamo detto, e colombe, cavalli e vacche, asinelli e delfini, un piccolo elefante. Anche qui si segnala però già una scomparsa: il feroce orso federalista e pivettiano. Accanto ci possiamo mettere il proliferare di liste con nomi di persona: Cito, Sgarbi, Bonino, Dini, o, ultima novità, con addirittura e semplicemente la foto del referente. Il culto della personalità ovvero, come direbbero più elegantemente i politologi, la personalizzazione della politica non ha più limiti. E infatti si può andare ancora oltre. Una delle foto è contornata dall´impegnativa scritta Sacro Romano Impero Cattolico Liberale. Mi chiedo perché non anche socialista.

Così come un altro avanzamento rispetto al passato è rappresentato dalla lista «buone maniere». Insufficiente proporre i diritti civici come fa una, e imbarazzante il pugno chiuso di lotta dura dei cobas per l´autoorganizzazione o l´autoproclamazione de «il giustiziere d´Italia». La nuova frontiera è la buona educazione. Anche la lista che grida «yankee go home» aggiunge «please». E non si dica che facciamo discorsi qualunquisti, perché c´è già chi ha rivendicato l´antico motto e ripresenta l´omino strizzato dell´Uomo qualunque. In effetti e piuttosto si ride per non piangere.

Nessun dubbio che i partiti siano essenziali per la democrazia ma a scorrere questi simboli vien da chiedersi quali realtà vi siano dietro, a quale immaginario facciano riferimento, quale idea vogliano richiamare, di che per l´appunto siano simbolo. Che forza evocativa abbiano. Mi scusino i proponenti ma quel delfino che salta sopra la scritta «democrazia attiva» null´altro sapendone (colpa mia senza dubbio) sembra un invito salutista più adatto a una palestra che a un partito. Così come impressiona in certi simboli l´accumulo di segnali o la loro reiterazione. Il garofano sotto la quercia (là dove una volta stava la bandiera dell´antico Pci), e il leone di San Marco, e la stella delle Alpi e il guerriero di Legnano e ancora la scritta libertà per la Lega Nord, o dall´alto al basso Patto Segni, elefante, Alleanza nazionale, Fiamma tricolore tutto insieme. O la rosa nel pugno che si dichiara oltre a ciò propria dei liberali, libertari, liberisti. Il rischio, direbbero i pubblicitari, è quello di un messaggio confuso o ridondante, di confessare paradossalmente in tanta ricchezza di dichiarazioni una identità debole.

Qualcuno può commentare che sia tutta colpa del sistema proporzionale ma, diciamo la verità, è un nascondersi dietro il dito. Ai tempi del proporzionale quasi perfetto le liste non arrivavano a dieci e nessun buontempone pensava di inventarsene una propria. Non c´era posto infatti per ideuzze e per esibizioni personali. I simboli stessi di conseguenza erano pochi e semplici perché si riferivano a scelte nette e fondamentali che si volevano immediatamente intellegibili. Ed era la forza delle idee che cementava le appartenenze e rendeva quasi inconcepibile il passaggio da una lista ad un´altra o l´ondivago girovagare fra una maggioranza e l´altra, fra destra e sinistra fino al punto, come si è appreso nei giorni scorsi, di un sottosegretario dell´Udr al governo a Roma e per vari mesi in una maggioranza di centrodestra in un ente locale della sua regione.

Ancora si ricordano gli insulti lanciati da Togliatti ai due deputati che in crisi personale e ideologica lasciarono il Pci negli anni Cinquanta. Vennero liquidati come due pidocchi nella criniera di un nobile destriero. O per converso è ben nota l´angoscia personale con la quale i cosiddetti cattocomunisti alla Franco Rodano vivevano la propria condizione di scomunicati per la loro scelta partitica.

E non meno drammatiche, vere scelte di vita erano quelle che sottostavano a quelle scissioni socialiste che prima ricordavamo. Quando invece l´identità diventa così leggera e vaporosa da consentire qualunque scelta il problema non sta nel proporzionale e nel sistema elettorale in genere, ma, come si dice, a monte: nella incapacità della politica di legare consapevolezze generali e personali, di fare corpo con l´identità individuale.

Non per nulla, mi sembra, sono spuntati in queste ultime elezioni i simboli del tutto estranei alla nostra tradizione politica dell´asinello e dell´elefante che rinviano rispettivamente ai democratici e ai repubblicani degli Stati Uniti d´America. Come si sa infatti i partiti americani esistono praticamente solo come macchine elettorali e sono così ampi e onnicomprensivi da non consentire elaborazioni ideali particolarmente impegnative e complesse. E offrono di conseguenza una identità di partito assolutamente generica. Tant´è vero che poi a votare effettivamente va appena la metà dei potenziali elettori e alla stessa elezione del presidente si giunge in realtà attraverso una elezione locale, perché di secondo grado in quanto in ogni Stato si vota quel certo numero di delegati che a seconda della popolazione tocca a ciascuno di essi. Così che persino la scelta più generale passa attraverso determinazioni locali e interessi particolari. Rifacendosi alle entità politiche americane insomma ci si richiama ad un modello di partecipazione ed identità politica debole.

Può essere una scelta realistica rispetto alla crisi della democrazia forte e consapevole dei propri valori e impegni di un passato cui sopra accennavamo e andata in crisi alla fine degli anni Ottanta, ma è una scelta nel contesto italiano piuttosto difensiva, mi sembra, di chi vuole, per genuina preoccupazione evidentemente, salvare il salvabile.

Ci si può chiedere però se fra il festival dell´improvvisazione e la rassegna dei dilettanti allo sbaraglio che abbiamo commentato sopra e questa scelta americaneggiante inevitabilmente al ribasso rispetto alle tensioni ideali di un tempo non sia possibile pensare ad altre strade, non sia possibile e necessario ripensare la politica oltre la caricatura delle cinquanta e passa liste delle prossime elezioni.

E oltre, soprattutto dopo l´esito dell´ultimo referendum, il problema (falso per certi versi alla luce di quanto abbiamo detto) del sistema elettorale maggioritario oppure no. La questione infatti non è tanto quella di creare una sorta di imbuto obbligato per le scelte dei cittadini nel mito della governabilità quanto quello di rimotivarli, e per far questo vi sono altre possibilità: dall´attuazione di un effettivo federalismo ad una delegificazione sistematica che porti il Parlamento a discutere solo delle scelte quadro e generali, ad un maggior affidamento sulla responsabilità individuale e collettiva attraverso una più ampia libertà di scelta e di soluzione, come potrebbe accadere nel caso della scuola.

E persino dell´università, la vicenda dell´autonomia della quale è un caso perfetto per dimostrare come si predichi bene all´ingrosso e si razzoli malissimo al minuto. Ma di questo sarà il caso di parlare un´altra volta. Chissà che nel frattempo non ricompaiano i due liocorni.


29/04/1999