- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 1999
- Rinascimento, magnifici quegli anni
Rinascimento, magnifici quegli anni
Nel 1430 a Mantova Gian Francesco Gonzaga non ancora marchese ma soltanto signore della città come capitano generale della stessa, formalmente soltanto un cittadino eminente fra tutti i concittadini, li invitava a esprimere il loro parere su ciò che fosse buono per la città e la signoria. Una sorta di referendum, dal quale il Gonzaga evidentemente si aspettava se suggerimenti certo anche gratificazioni, e riconoscimenti del proprio operato, difficilmente critiche. Furono invece queste a riempire le lettere che i mantovani stesero in risposta all´invito del signore.
Senz´altro espresse in forma cauta e rispettosissima -qualcuno si proclamava addirittura niente più che un minimo vermicello e la città era sempre «vostra», mai «nostra» in questi testi- ma non per questo meno chiara. Al fondo delle critiche stava la novità del modo d´essere signore di Gian Francesco, il quale si era ormai staccato dagli schemi comunali, quelli del nonno che i cittadini gli ricordavano, dalla parsimonia e dalla modestia della vita sociale di quello così come dal rispetto delle forme amministrative del comune, per assumere sempre più atteggiamenti e costumi da principe quale sarebbe effettivamente diventato di lì a tre anni. Episodio minimo quello mantovano, ma estremamente significativo delle profonde trasformazioni della società e della cultura italiane al principio del Quattrocento.
Lo stesso Gian Francesco aveva appena chiamato a Mantova Vittorino da Feltre il quale vi aveva fondato la famosa «Cà zoiosa» modello per eccellenza dell´educazione umanistica nella sua attenzione per una formazione armonica di corpo e mente, nel suo culto della classicità, nella considerazione delle scienze, nel rifiuto in definitiva non certo della fede cristiana ma della prospettiva teologica come sola unificante tutta la cultura. Ciò cui i mantovani perplessi assistevano era la rottura con quel passato che sarebbe presto diventato il Medio Evo, i secoli bui in mezzo tra gli splendori dell´antichità classica e il loro Rinascimento nei moderni. Era stato Petrarca per primo a avviare tale teorizzazione e la straordinaria durata e fortuna del petrarchismo nella letteratura italiana comprova il largo successo di quel progetto che andava dalle arti alla politica e recuperava nel modello e nell´esempio degli antichi una prospettiva alternativa a quella della cristianità medievale.
Sempre a Mantova Leon Battista Alberti immaginando il suo Sant´Andrea sul modello dei templi classici e del tutto differente dalle cattedrali romaniche o gotiche avrebbe proposto a metà Quattrocento un´idea di spazio sacro che fatta propria nella Controriforma dai gesuiti - con la chiesa del Gesù di Roma - sarebbe divenuta modello per tutta l´Europa, quella riformata compresa, fin quasi alla fine dell´antico regime. Ma se del progetto umanistico si potevano appropriare i principi rifacendosi all´esempio dei Cesari e alle virtù e magnificenze dei governanti antichi, esso poteva avere anche una versione civica e repubblicana. In quegli stessi anni Trenta sopra evocati, a Firenze Matteo Palmieri scriveva il «Della vita civile». Nell´opera veniva perfettamente espressa l´identificazione fra uomo virtuoso e cittadino di repubblica con gli importanti corollari della ininfluenza della nascita rispetto alla capacità di governo - nessuno «sdegni d´essere governato da virtuosi, perché siano in ultimo luogo e di stirpe ignota nati»- e della giustizia come «principale imperadrice di ogni altra virtù», quella che «a tutto il corpo della repubblica insieme provede e ministra [...] la pace, l´unione, e concordia della civile moltitudine unitamente congiunge e serra, onde insieme e sana e bene vigorosa la città non vacilla».
Ne derivava il rifiuto delle fazioni comunali, una considerazione del cittadino come individuo e non membro d´una parte, l´importanza dell´educazione alla virtù civica di ciascuno come garanzia del benessere collettivo, la supremazia delle leggi, la valutazione positiva della ricchezza e della sua ricerca poiché onesto e utile ciceronianamente si implicavano, e «né liberale né magnifico può esser colui che non ha da spendere, iusto né forte non sarà mai chi in solitudine viverà, non esperimentato né esercitato in cose che importino e in fatti e governi appartenenti ai più». E in definitiva da tale nuovo modo di sentire derivava l´idea della superiorità del presente sui tempi precedenti «da mille anni in qua» e l´ambizione di esser, come si è detto, all´altezza degli antichi. Invece delle torri famigliari e delle guglie gotiche ora era la cupola classicista del Brunelleschi, «erta sopra i cieli a coprir tutti i popoli di Toscana» come la magnificò l´Alberti, a rappresentare la grandezza fiorentina. La conquista di Costantinopoli, difesa anche da settecento genovesi, nel 1453 a opera di Maometto II se aveva come conseguenza la fine dell´impero romano d´Oriente e suscitava grande emozione favoriva tuttavia l´afflusso in Italia di uomini di cultura greca e una più larga conoscenza del greco classico così che si poteva ora più facilmente attingere ai testi originali senza la mediazione delle traduzioni latine e della cultura cristiana medievale. Soprattutto Platone conosceva così una nuova voga anche perché nella sua esaltazione della sapienza e del sapiente permetteva una rinnovata sintesi di umanità e senso del divino, come appariva chiaro nella «Theologia platonica» di Marsilio Ficino pubblicata negli anni Ottanta del secolo e sostenuta dal favore mediceo. A quella data infatti anche a Firenze l´umanesimo civico aveva lasciato il posto all´esaltazione di un ottimo cittadino che si identificava con i dominanti Medici e che scontava la sempre più diffusa gerarchizzazione della società urbana intorno alla corte del principe.
Non per niente il Platina, autore del «De optimo cive» dedicato a Lorenzo de´Medici aveva potuto scrivere per il marchese Federico Gonzaga un «De optimo principe» che ricalcava fedelmente il primo. In un modo o nell´altro tuttavia verso la fine del Quattrocento la prospettiva umanistica era ormai quella dominante e il fallimento del tentativo di reazione rigorista nei costumi e nell´ordinamento politico di Savonarola a Firenze schiacciato dall´azione congiunta del papato che lo scomunicò e dei sostenitori dei Medici - e il frate processato sarà impiccato nel maggio del 1498- esprime perfettamente tale situazione. Piuttosto che dalle critiche e tensioni dall´interno dell´Italia la crisi della fiducia nella superiorità della civiltà delineata dall´umanesimo sarà provocata però dall´ingresso nella penisola degli eserciti stranieri, a cominciare da quello di Carlo VIII re di Francia nel 1494. Philippe de Commines ci ha lasciato nei suoi «commentari» memoria sia della attonita meraviglia dei transalpini per la qualità della vita e cultura italiana del tempo sia però anche della debolezza politica degli stati principeschi della penisola.
La nuova geografia politica dell´Europa e lo scontro tra le potenze asburgica da un lato, francese dall´altro, avrebbe provocato per l´Italia un lungo periodo di instabilità ma avrebbe anche prodotto la più rapida diffusione degli elementi della cultura umanistica qui prodotta e il generale affermarsi dell´idea del necessario Rinascimento degli antichi nei moderni in tutta Europa fornendole così una rinnovata comunanza culturale, l´accumularsi di un altro strato di fertile humus per il germogliare di culture nazionali come rami di un unico tronco, e l´idea di una superiorità ed eccellenza del Rinascimento italiano i cui esiti ancor oggi sperimentiamo già nell´immagine turistica del nostro paese.
03/11/1999