Università Cattolica del Sacro Cuore

Un secolo macchiato dalla pulizia etnica

Il secolo che si è aperto col massacro degli armeni da parte dei turchi si chiude con la deportazione degli albanesi del Kosovo. In mezzo ci stanno molti altri avvenimenti simili. Lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti non ha pari come ampiezza e sistematicità ma l´odio per chi è diverso, per cultura, religione, tradizione, ha attraversato tutto il Novecento.

La pulizia «etnica» non è un´invenzione recente. Dopo la prima guerra mondiale, ad esempio, il Trattato di Losanna sanzionò lo scambio obbligato della minoranza musulmana residente in Grecia con quella cristiana in Turchia. 350.000 persone dovettero abbandonare la prima, più di un milione la seconda. Peggio ancora andò a quelli, come i curdi, cui una identità nazionale e statale non venne mai riconosciuta e che rimasero intrappolati nei confini di Stati fra loro ostili. E per restare a casa nostra possiamo ricordare la politica sistematica avviata per una cancellazione della specificità delle popolazioni di lingua tedesca dell´Alto Adige e di quelle slovene tra Friuli e Istria, da parte del regime fascista.

Non che le democrazie fossero sempre molto meglio. L´Inghilterra imperiale cedette solo a seguito di una vera e propria guerra civile la sovranità sull´Irlanda cattolica dopo la prima guerra mondiale. Le deportazioni ed espulsioni che seguirono la seconda, degli italiani dall´Istria e Dalmazia, dei tedeschi dai Sudeti (circa tre milioni) o la russificazione della Prussia orientale sono ben note. Così come l´espulsione degli ebrei dai Paesi arabi, e quella degli arabi dal nuovo Stato d´Israele. Ognuna di queste trova le proprie ragioni, chiamiamole così, in vicende particolari e diverse.

Non sempre la convivenza fra genti differenti «per sangue, lingua ed altar», come avrebbe detto Manzoni che tale unità caratterizzava invece la nazione italiana, era stata semplice; ma la incapacità del nostro secolo di convivere con le eredità della storia è comunque impressionante, così come quella di gestirne la complessità. E non in qualche remota area coloniale, ma nella stessa Europa. Sembra paradossale ma lo stesso secolo nel quale si affermano i diritti dell´uomo, cresce l´individualismo, la società si laicizza, le tradizioni si sgretolano ci racconta anche un´altra storia: quella di individui che non riescono a vivere se non ricorrendo a identità collettive così esclusive da non poter nemmeno convivere con quelle degli altri, e anzi doverle temere e odiare. Il secolo che vanta e magnifica il progresso scientifico e tecnico, che ha riscritto la storia per mettersene ideologicamente al culmine, è anche il secolo che ha il record dei massacri e delle guerre più spaventose. Quello che riteneva di aver neutralizzato i conflitti religiosi, lo stesso che vede usate le religioni come discrimine e arma.

Le più recenti analisi della nostra situazione di fine secolo insistono sul fatto che la rivoluzione telematica e la globalizzazione sono forze che ci allontaneranno sempre più dal passato, che obbligheranno a una competizione sempre più serrata e a un mutamento sempre più rapido, che i valori saranno sostituiti dalle regole procedurali, ma ci dicono anche che non potremo sopravvivere in un simile mondo senza avere degli ancoraggi saldi nella nostra specifica tradizione. Se il ventesimo secolo si era aperto nella fiducia di un´evoluzione verso il benessere e la ragione diffusa fondato sulla garanzia della bontà intrinseca della scienza, lo stesso si chiude constatando l´ambivalenza di ogni progresso, la tensione che esso impone, le incognite che apre. Nei luoghi più deboli d´Europa una difficile composizione di questa ambivalenza sembra attuarsi oggi attraverso la mutilazione della società, la sua coatta semplificazione, per fuga o sopraffazione. Altrove può bastare il sincretismo della new age, un vago spiritualismo che ci fa sentire parte di un tutto cosmico ed elude ogni ulteriore ricerca di senso. Ma questa è una risposta da Paesi ricchi, non da disperati che si sentono inseguiti dal movimento globale dell´economia e stanno alla periferia di tutto.

Il ventesimo secolo nacque certo che le magnifiche sorti progressive attendessero l´umanità. Non era quella la belle epoque? Non era il futuro meglio del passato? Al fondo vi era l´idea che la storia non fosse tragica, che l´umanità progredendo avrebbe risolto i suoi problemi. Già la prima guerra mondiale mise in crisi tali ingenue certezze scoprendo gli orrori di un conflitto di massa e tecnologico mai prima sperimentato. In un modo o nell´altro la generazione che ne uscì cercò di trovare una soluzione che quelle certezze restaurasse. Fu il grande tempo della politica e dello Stato chiamati a trattare come tecnici quei problemi, addomesticabili e in prospettiva risolvibili. Dopo la sconfitta delle dittature reazionarie nella seconda guerra mondiale, per un certo tempo la fiducia nelle possibilità della politica crebbe ancora. Al punto che qualcuno pensava addirittura che ci potesse essere una scienza della politica e la si potesse insegnare: un sapere assoluto in grado di comprendere e prevedere i comportamenti umani collettivi. La gara fra mondo occidentale e blocco sovietico nascose a lungo la gravità dei problemi che si accumulavano su questa teoria.

Dopo il crollo del muro di Berlino la società occidentale non poté più contare sul vantaggio di una comparazione rassicurante né di uno stato di emergenza (la guerra fredda, la competizione con l´impero del male) che scusava ogni suo limite. E dovette mettere alla prova le sue certezze senza più alcun alibi. Certo, noi possiamo circoscrivere ogni crisi alle sue cause immediate e soffermarci sulle scelte dei singoli protagonisti. Ad esempio che gli Stati Uniti possano trarre una maliziosa soddisfazione dall´umiliazione di una Europa che si è appena proposta come alternativa economica globale - l´euro contro il dollaro - e che è subito costretta a dipendere dalle scelte e dalle forze americane per tentare di risolvere un problema locale ai suoi confini come il Kosovo che non ha saputo prevenire e gestire, può anche essere. Ma sarebbe troppo bello che il problema stesse tutto qua.

A questo punto il sistema che ha vinto la guerra fredda non può ritrarsi dalle responsabilità e dalle attese che tale vittoria gli ha caricato addosso. A pena di affermare che nemmeno esso sa più dove stia andando la storia, ovvero che la tragicità della stessa sia insuperabile. Ma riconoscere un limite alla propria superiorità, significherebbe interrogarsi subito dopo sul senso di quel processo accelerato di mutamento dentro cui siamo: e questo fa paura. Meglio salvarsi l´anima con i doveri umanitari e militari, le nobili invocazioni alla pace, gli aiuti (ovviamente necessari!) e con l´enfatizzazione di nuovi piccoli demoni (Milosevic oggi, domani o quando servisse Saddam Hussein, ma la lista è estendibile a piacere: le sofferenze dei curdi, quelle dei cristiani nel Sudan, quelle dei tibetani in Cina. Tutte vere, tutte terribili, ma praticamente rimosse al momento). Meglio insistere sulla coazione a ripetere impostaci dalla stessa vittoria contro il comunismo. Ma fino a quando? E siamo sicuri che il gioco non ci sfuggirà di mano?


04/04/1999