- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 1999
- Valiani, straniero in patria
Valiani, straniero in patria
Leo Valiani era nato a Fiume nel febbraio del 1909, territorio allora dell´impero asburgico. È morto ieri a Milano, ancora una volta straniero alla sua patria, non più italiana da oltre cinquant´anni. Vien da dire che la vicenda fiumana costituisce efficace metafora della vita dello stesso Valiani, una vita a disagio, in qualche modo continuamente sradicata e nella quale proprio per questo appassionata e fortissima è stata la passione per un´identità coerente pur attraverso tante diverse stagioni e idealità.
Appena ventunenne si era iscritto al Partito comunista clandestino - e clandestino in patria egli stesso dunque era diventato -, era stato più volte arrestato, condannato a dodici anni, inviato al confino, e nel ´36 infine era passato in Francia a condurvi la dura vita dell´esule politico. Combatté poi nella guerra di Spagna e un altro esilio lo attendeva nel ´39 quando di fronte al patto Ribbentropp-Molotov abbandonava la fede comunista e la militanza nel partito. Dopo fortunose vicende rientrato in Italia nel 1943, vi diveniva segretario del Partito d´azione per l´Italia settentrionale.
Nel ´45 era a Milano a guidare con altri il comitato di insurrezione. Fu forse quello il momento di maggior consonanza di Valiani con il suo essere italiano. Eletto infatti deputato alla Costituente, si ritrovò ben presto in una condizione di straniamento rispetto al suo Paese con la fine del Partito d´azione e il disfarsi di quel progetto politico nell´indifferenza della grande maggioranza degli italiani. Anche il successivo approdo al Partito radicale fu poco più di una sosta nel percorso tormentato di Valiani. Vi aderì infatti dal ´56 al ´62. Dopo di allora, ma già da prima in realtà, con la collaborazione a Il Mondo di Pannunzio, si trovò politicamente a far sostanzialmente parte per se stesso, preferendo a un impegno partitico che gli appariva comunque inadeguato la ricerca e affermazione delle proprie idee come giornalista e commentatore.
In questa veste affrontò dalle pagine del Corriere della Sera l´ultima battaglia della sua vita, quella che lo vide in prima fila indefessamente a contrastare senza cedimenti e compromessi il terrorismo degli anni Settanta. E Pertini ne segnalò la continuità dell´impegno per le istituzioni democratiche nominandolo nell´80 senatore a vita. Straniero alle sue origini, fu così quasi sempre poco o tanto straniero in patria, e ricercatore inesausto e critico lungo gli accidentati percorso ideologici del Novecento. Ciò che nessun avversario gli poté però mai contestare fu un cedimento morale. Uomo brusco e orgoglioso anche delle prove che aveva saputo affrontare e reggere, aveva fatto sempre più delle virtù morali la sostanza alla fin fine della politica stessa, quella politica che era stata la grande ma, come abbiamo detto, raramente placata passione della sua vita. Nella lealtà gli impegni presi e nella disponibilità piena a pagare di persona, aveva così trovato quelle certezze di una linea della vita e quell´identità che la storia politica e ideologica del Novecento gli avevano continuamente tentato di sottrarre nei loro mutamenti.
Da ciò derivava in lui una sorta di altissimo moralismo, di condanna amara di quelle che riteneva le debolezze e le inadeguatezze del carattere degli italiani; da ciò gli veniva quella visione aristocratica che rintracciava volentieri le proprie origini nelle figure della grande borghesia della destra storica, in quel mitico mondo dei savi che si era riconosciuto nella speranza e nel progetto di un Risorgimento d´Italia. Un Risorgimento sempre incompiuto, ad avviso di Valiani, perché tradito nella sua ispirazione morale e dunque debole nelle strutture istituzionali che aveva saputo purtuttavia darsi. Anche nella contrapposizione durissima al terrorismo era stato il timore di un cedimento dello Stato, e con esso della rovina di una società di cui lo Stato stesso costituiva la necessaria impalcatura, la motivazione continuamente ripetuta a motivare una rigidità di posizioni indifferente alle circostanze come ai rischi, anche personali, una volta ancora. Non c´erano probabilmente molti modi per chi ha avuto in sorte una vita tanto lunga per attraversare in piedi il Novecento, questo secolo tanto tormentato e ben poco breve, nato quando l´antico regime non era ancora del tutto finito e che muore oggi consumate tutte le ideologie della mortalità.
Valiani tra le possibili scelse la via dunque di un´intransigente moralità personale, al di là delle cangianti appartenenze politiche e delle disillusioni ideali o partitiche. Qualche anno fa la si sarebbe potuta valutare come una scelta rispettabile ma eccentrica e magari debole. Oggi, di fronte alle incertezze delle teorie e delle «vie» politiche, essa ci appare invece come una sorta di scelta minima magari, ma necessaria; il «vivere alle mie condizioni, quelle poste da me» come aveva scritto un uomo di pari coerenza e di differente, perché cristiana, moralità, Dag Hammarskjold, il prerequisito includibile per affrontare il lungo cammino nell´incertezza e nella nebbia della postmodernità. Per questo non possiamo non guardare oggi a Leo Valiani e alla sua storia e esempio con rispetto e rimpianto.
19/09/1999