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«L´Eco»: centovent´anni raccontando di noi
C'erano sicuramente tanti modi per celebrare i centoventi anni de «L'Eco di Bergamo». È singolare il fatto che da quattro generazioni il giornale accompagni la vita quotidiana dei bergamaschi, che abbia saputo conquistarsi la loro fiducia e mantenerla, malgrado tante trasformazioni e tanti mutamenti.
Sarebbe stato legittimo un moto d'orgoglio, sarebbe stato giustificato magari parlarsi un poco addosso. Alla fine non sono molti i quotidiani che dall'Italietta umbertina appena affacciata sulla modernità e unita, ma nemmeno tutta, da appena dieci anni - dove il treno era l'eccezione e così le macchine meccaniche a fronte di un Paese agricolo nel quale la stragrande maggioranza della popolazione viveva in campagna secondo ritmi antichi, dove pochi avevano il diritto di voto e le donne erano comunque escluse, dove pochissimi studiavano oltre le scuole elementari e non mancavano gli analfabeti - sono giunti a questo Paese postmoderno e postindustriale, nel quale per un bambino è più imbarazzante aver a che fare con una vacca (già è diventata una mucca!) che con un computer, mantenendo salda e vitale la propria identità culturale e la propria capacità di narrare credibilmente la società circostante. Rigore e distacco nei fatti di cronaca E ancora meno sono i giornali che - nati da un'ispirazione di opposizione e di critica alle presunzioni delle magnifiche sorti e progressive del nuovo Regno, con le sue disastrose avventure coloniali e le pose da grande potenza - hanno saputo mantenere rigore e distacco dagli entusiasmi mutevoli per uomini e regimi conservando anche nei momenti più difficili quel tanto di atteggiamento critico, o di prospettiva altra rispetto a quella pure pretesa dai potenti di turno, che le circostanze più ostili permettevano. «L'Eco di Bergamo» poteva insomma celebrarsi anche, e a ragione, come voce libera e capace di cantare fuori dal coro. O di tacere, piuttosto che parlare con voce non propria. Si veda il giornale negli anni terribili 1943-45. I giornali, base per la storia Però il giornale, e va a tutto suo merito, ha fatto una scelta diversa, e perfettamente in linea con la sua storia. Una scelta cioè, ancora una volta, di servizio ai bergamaschi. Ha scelto di raccontare attraverso notizie e immagini d'epoca la storia quotidiana loro e della loro città e provincia dal 1880 al 2000.
Non è stato un lavoro facile. Un giornale non è attrezzato per questo genere di impegni. Abituato a consumarsi e a rinascere giorno dopo giorno, è attento più a ciò che sta divenendo che a quanto, accaduto, si allontana nel tempo passato. Anche se ciò è paradossale, essendo il giornale la fonte più continua, e per molti versi affidabile, per conoscere il passato stesso. Pubblicato ogni giorno, non può permettersi di riscrivere la memoria secondo convenienza, o grazie al senno di poi. E se sbaglia, gli errori vengono inevitabilmente fuori dal confronto tra ciò che si è scritto prima e quanto viene affermato poi. Il quotidiano, insomma, è un testimone cui alla lunga nulla viene perdonato, e nulla può nascondere, anche quando sul momento fosse reticente. Non per niente, con grande irritazione degli storici i quali si occupano di età precedenti e non hanno a disposizione un simile agevole strumento, gli storici dell'età contemporanea fanno spesso dei giornali come fonte un uso tanto ampio. «Troppo, e troppo facile. Sono capaci tutti» sibilano fra i denti e alzano il sopracciglio dotti esperti di rade pergamene altomedievali in scrittura onciale e modernisti costretti a strizzare documenti frammentari o a setacciare archivi polverosi e ambigui, per non parlare di quelli che si occupano di età più antiche. Ma tant'è. I giornali già per l'Ottocento, ma soprattutto per il Novecento, sono un aiuto preziosissimo a ricostruire ciò che è avvenuto e a permettere una sua rielaborazione che diventa memoria vitale per il presente, consapevolezza necessaria per pensare il futuro. E così, avendo fatto la scelta di rileggere centoventi anni di pagine quotidiane per proporle, corredate, come si diceva, di fotografie, e accompagnate da testi di sintesi e di inquadramento, e avendo stabilito di farle correre in parallelo, anno dopo anno, con quanto contemporaneamente accadeva nel resto del mondo, «L'Eco di Bergamo» ha dovuto inventarsi una squadra di collaboratori che setacciassero il giornale - per fortuna nell'archivio ci sta tutto, dal primo numero in avanti - schedassero le notizie, trovassero le fotografie, scrivessero i testi, abbinassero locale e generale, controllassero che tutto funzionasse armonicamente, dessero la caccia ai refusi e alle involontarie incongruenze, montassero e impaginassero. E pure con un formato elegante, e invitante allo sguardo e alla lettura. E preparassero infine l'indice, così che - perbacco, le cose o si fanno bene o non si fanno - i fascicoli «1880-2000 Bergamo il grande secolo» potessero vivere e servire oltre il giorno d'uscita e li si potesse conservare e risfogliare secondo esigenze e curiosità. Neanche da dire poi che tutto questo andava fatto con i tempi non degli storici, ma dei giornalisti.
Una annata dopo l'altra E io, che stavo quasi in fondo alla catena sopra evocata, posso assicurare della fatica da forzati dei giovani laureati impegnati a passare un'annata dopo l'altra con in testa un orologio invisibile che sollecitava: presto, presto. E questo mentre le annate a mano a mano che si veniva verso il presente crescevano di consistenza, li sovrastavano, e straripavano, dalle poche pagine quotidiane - ma erano, appunto, quotidiane - dei primi anni fino alle 44-48 pagine quotidiane e, spesso, fino alle 56 degli ultimi tempi, senza contare le migliaia e migliaia di pagine dei supplementi, degli inserti e degli speciali. Non che gli altri della squadra stessero tanto meglio. Così chi doveva sintetizzare e scrivere ordinatamente, come chi, pur avendo in testa una specie di archivio fotografico e non solo, doveva poi effettivamente trovarle quelle immagini, e combinarle con le notizie in modo che fossero - le une e le altre - sempre significative, sempre produttrici di memoria. Magari resuscitando ricordi, o producendo - quelle più antiche soprattutto - autentici corto circuiti mentali fra un passato così lontano e diverso e un presente che non si raccapezza di esserne purtuttavia figlio. Un lavoro utile e anche piacevole Alla fine però, con un gran via vai di e-mail, digitalizzazioni, computerizzazioni e tradizionalissime prove di stampa, si è arrivati in fondo, e stando nei tempi. È vero, succede quasi sempre così, ma mentre ci si è in mezzo si stenta a crederlo. E ancor più notevole, anche se parte in causa non dovrei dirlo, i fascicoli sono venuti proprio di soddisfazione. Ma a questo punto, perché tenersi? Diciamoci anche questo: sono venuti come nessun altro mai li aveva fatti e come qualcun altro magari cercherà in futuro di imitarli. Perché, come dicevo, della loro utilità, oltre che della loro piacevolezza, è veramente difficile dubitare. Senza pretendere - ci mancherebbe altro! - di sostituirsi alle storie di Bergamo e dei bergamaschi che da Belotti in poi sono state scritte e riscritte anche in questi ultimi anni da illustri colleghi, l'iniziativa editoriale «1880-2000 Bergamo il grande secolo» fornisce una quantità di notizie che altrove non si trovano; accompagna, come un basso continuo, con la sua storia della quotidianità le elaborazioni più accademiche altrui; restituisce visivamente il passato - anche la fotografia hanno di vantaggio gli storici della contemporaneità - permette un confronto istantaneo, e semplice tra ieri e oggi. Ma se si vuole anche molto sofisticato e ricco.
Provate a prendere una fotografia e a esaminarla in tutti suoi particolari. Vedrete quante informazioni vengono fuori. Così come facendo correre anno dopo anno le notizie, che piano piano cambiano di tenore e argomento. Non più miseria e malattie, in proporzioni che sembrano a prima vista incredibili, ma estensione delle reti stradali e tramviarie, crescita della città - e demolizioni, aihnoi! -, sviluppo della società, l'apparire di segni che ci stupiamo di apprendere che una volta non c'erano, tanto sono parte della nostra quotidianità. Le cose che non si sanno Lo sapete quando compaiono a Bergamo le strisce pedonali? E il primo volo di linea da Orio al Serio? E per contro, quanti seminaristi c'erano negli anni Cinquanta? Più o meno di cinquecento? E quanti attentati ci furono negli anni seguiti alla contestazione giovanile? E quali son stati gli anni migliori dell'Atalanta? E i peggiori? E sapete chi ha vinto via via le elezioni, come hanno votato i bergamaschi ai vari referendum? Come abbiamo insomma, chi tanto chi poco, attraversato il Novecento? E in che compagnia? E possiamo esserne contenti? Accanto al Big Ben - scriveva Virginia Woolf - si sentono i rintocchi anche di tante altre campane più modeste, e dal suono più esile. Il loro concerto è come la nostra vita. Non fatta solo di eventi clamorosi e di giorni eccezionali. Il titolo ci aiuta a ricordarlo. Nel bene e, per quel che c'è e non si può togliere, nel male. Ma ne vale la pena.
29/04/2000