Università Cattolica del Sacro Cuore

La politica come arte del possibile

Oggi Giovanni Paolo II firma la lettera in forma di «Motu proprio» che proclama patrono della politica Tommaso Moro (Thomas More).  Di Tommaso Moro tutti sanno almeno questo: che scrisse Utopia, che morì decapitato per non aver voluto rinunciare - egli già Lord cancelliere del regno - alla fede cattolica quando Enrico VIII re d´Inghilterra impose lo scisma anglicano. Sono notizie sicuramente sufficienti per giustificare senza troppa fatica la scelta papale di proclamarlo patrono dei politici.

Sintetizzate così le sue caratteristiche può piacere inoltre a tutti, non credenti compresi. «Utopia» non è forse diventato nome comune indicante la speranza, bella se pur forse impossibile, d´un mondo migliore? E chi potrebbe criticare un uomo che muore per non piegarsi a una scelta contro coscienza?

 Moralisti di tutto il mondo unitevi dunque, e marciate fieri sotto la bandiera di Moro. E scrivete pure qualche articolo condiscendente sulla scelta papale. Spiegate che individualismo e progressismo sono le parole chiave per comprendere l´uomo Moro, e sorridendo sotto i baffi, mettetelo da parte per ritorcerlo  contro la Chiesa alla prima occasione nella quale dirà qualcosa che non vi garba.  È vero, verissimo che Tommaso Moro muore per una questione di coscienza, ma d´un tipo particolare, relativa alla sua fede in Dio.

Lo notava con finezza Claudio Magris in un suo intervento qualche giorno fa. Tommaso Moro non è un moralista in cerca di martirio, non mette la dignità personale al di sopra di tutto, non usa la verità in cui crede come un randello per bastonare gli avversari costi quel che costi; cerca fino alla fine delle soluzioni che risolvano problemi collettivi e non semplicemente gratifichino il suo io, e fa di tutto per evitare di trovarsi alla stretta finale.

Quando Enrico VIII entra in rotta di collisione con Roma per le sue questioni matrimoniali e si avvia sulla strada di una chiesa nazionale da lui presieduta, Tommaso Moro, orami inascoltato, semplicemente si dimette dalla altissima carica ricoperta. Siamo nel 1532. Si tiene in disparte, aspetta forse tempi migliori. Quando poi, due anni dopo, il parlamento vota l´Atto di supremazia che sanciva lo scisma da Roma, allora effettivamente è costretto a prender posizione, e si rifiuta al giuramento di tale atto. Viene imprigionato, giudicato colpevole di alto tradimento, condannato a morte; si aspettano mesi per vedere se non possa cambiar idea, e alla fine, nel 1535 come il vescovo John Fisher - che pure si era rifiutato di accettare l´Atto di supremazia - viene decapitato.

Nei mesi della prigionia non scrive proclami, ma lettere alla figlia e agli amici per dichiarare sì la sua opposizione alle scelte regie, ma anche la disponibilità al dialogo nella prospettiva d´una ricomposizione del cristianesimo. Muore infine non come martire d´un qualche libero pensiero, ma come cristiano, convinto che solo la fede possa dar senso alla sofferenze umane e permettere di superarle. Se leggendo avete pensato ad altre lettere, e per assonanza a qualcun altro, tanto vilipeso per l´accanita ricerca del compromesso, tanto disprezzato in vita da coloro che parlan con facilità di fermezza a spese altrui e si rifanno così una verginità tardiva, ebbene siete maliziosi, e confondete i piani. Certo anche la lettura di Utopia, quando la si affronti davvero, lascia sconcertati. E´ vero che Moro descrive una società orientata al bene e tendenzialmente perfetta, ma la situa nell´isola di U-topos, senza luogo cioè, l´isola che non c´è.

La sua dunque è una utopia spaziale, non temporale. Situata in un non-luogo dichiara subito di non esser realizzabile, diversamente da quelle che ci affliggeranno dal ´700 in poi, e che troveranno la loro massima esaltazione nei totalitarismi apocalittici del ´900, convinti di poter realizzare nella storia la fine della storia, e dunque di poter (e dover) far violenza agli uomini nel nome di un ideale politico superiore, indiscutibile portatore di felicità, si chiami Reich millenario e supremazia ariana, o comunismo realizzato. Tommaso Moro vuole invece svolgere un discorso paradossale con fini morali, vuole, come il suo amico Erasmo nell´Elogio della follia, proprio a lui dedicato, mettere gli uomini di fronte allo specchio dei propri vizi, e invitarli a riflettere, a rinsavire, a diventare più virtuosi, più buoni, non più felici. Non gli interessa proporre un´alternativa assoluta, bensì sollecitare a un impegno quotidiano.  

Tant´è vero che discute criticamente la prospettiva platonica del filosofo il quale non deve far politica a meno che non possa esser re, e dunque in grado di imporre pienamente le sue idee; e che dunque sia moralmente disgustoso accettare compromessi o agire con qualche capacità di dissimulazione. Scrive che è ben bizzarra l´idea che si debba abbandonare la nave nella tempesta solo perché non si ha il controllo dei venti. Rifiutarsi al lavoro per la collettività perché gli uomini seguono le passioni e sono imperfetti, potremmo tradurre. E che con tutto ciò occorra invece fare i conti, con fatica e pazienza, sopportando per un bene comune - che va oltre noi, e la nostra personale soddisfazione e palese riconoscimento - la fatica del compromesso, la debolezza delle soluzioni possibili, l´umiliazione del passo indietro, il perdere se stessi. Tenendo ben fermo lo sguardo in Dio, e sapendo che solo Lui è la verità assoluta alla quale, alla fine di tutto, ma veramente alla fine di tutto, non si può rinunciare.


31/10/2000