- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
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- 2000
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Le urne disertate scelta consapevole
Le reazioni a caldo all´esito della giornata referendaria hanno oscillato fra l´apocalittico e il calcistico. Da un lato i sostenitori dei sì vi hanno letto la conferma di una antropologica o storicamente quasi invincibile arretratezza della società italiana, ne hanno tratto presagi nefasti sul futuro della stessa e la sua modernizzazione, deprecando l´occasione persa, promettendo che la battaglia continua, e così via. Dall´altra si è sbrigativamente concluso che «ha vinto Berlusconi», come titolava «La Stampa», e che sua era la terza vittoria consecutiva.
Neanche si parlasse di Lazio e Juventus. Certo Berlusconi è stato il personaggio politico di maggior peso ad essersi schierato per l´astensione, ma da qui ad attribuirgli la vittoria ce ne corre. Semmai è quello che ha saputo meglio di altri fiutare il vento del sentire diffuso e cogliere così i frutti di una situazione che non aveva determinato, e anzi per certi versi subìto. L´incognita su come Forza Italia saprà gestirla rimane perciò tutta e diventa persino più grave per l´identificazione di Berlusconi come interprete della volontà popolare, e responsabile principale dunque degli sviluppi futuri.
A cominciare dalla riforma elettorale, che ha finito per essere l´argomento più dibattuto fra quelli sottoposti a referendum. Tutti d´accordo sulla cattiva riuscita del Mattarellum, toccherà a chi ha di buon grado accettato di esser rappresentato come vincitore il compito di proporre una via d´uscita capace di superare l´impasse in cui il dibattito su maggioritario e proporzionale sembra finito, avendo la lungimiranza di non ragionare sui vantaggi di un sistema o dell´altro in termini di seggi alle prossime elezioni. E tenendo conto delle caratteristiche della società italiana e del suo rifiuto di farsi semplificare per legge attraverso le strettoie di un maggioritario concepito quasi come punizione per l´indisciplina di un popolo che si ostina a votare anche partitini minuscoli e rifiuta la tutela delle avanguardie meglio intenzionate a erudirlo. Si pensi al rapidissimo ridimensionamento della lista Bonino tra europee e regionali, o alla differenza fra attese e risultati di un altro partito a forte vocazione pedagogica come i Democratici. E qui sta il punto, anche per intendere correttamente l´esito dei referendum e il futuro dell´istituto referendario stesso.
Qualcuno fra i sostenitori del sì, come D´Alema o la Bonino, ha suggerito che il requisito del quorum andrebbe abolito. Esso manca, hanno detto, ad esempio in Svizzera. Se non si tratta di ingenuità, che compara due sistemi completamente differenti e dimentica che problemi di disaffezione alla politica vi sono anche là, tale idea svela l´ideologia di fondo di posizioni antiche. Quelle alle quali proprio dobbiamo in larga parte l´attuale crisi della politica. Voglio dire l´idea che i cittadini debbano essere costretti alla virtù. Si rifiutano di votare? Ebbene togliamo il quorum e saranno costretti a farlo. Magari, secondo quel di cui si discute in Inghilterra, facciamo pure pagare una multa a chi non vota. Il diritto divenga un dovere. L´immaturità presunta venga punita dalla legge paterna e provvidente di uno Stato educatore.
Proprio coloro che, come i radicali, più di tutti insistono sulla libertà degli individui finiscono per rivelare come la loro idea di libertà manchi di rispetto per chi non condivida la loro impostazione, e sia un´idea assolutamente ideologica di libertà. Ripeta la vecchia presunzione che vi sia chi è più avanti, e ha più ragioni degli altri di parlare e proporre. In tal modo invece di chiedersi come mai in un solo anno un altro diciotto per cento in più degli elettori abbia rifiutato di votare al referendum e interrogarsi sulla debolezza delle proprie proposte, si può dare ogni colpa a quegli ignoranti degli elettori, a quegli stupidi che si fanno ingannare dai cattivi suggeritori. E se invece gli italiani non avessero votato perché sono stufi di esser ricattati attraverso l´istituto del referendum a sostituirsi alle debolezze della politica parlamentare? Se lo volessero riservato solo alle questioni cruciali, come monarchia o repubblica, divorzio sì o no? Se insomma il Paese reale fosse più intelligente e «avanti» del Paese legale?
23/05/2000