- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
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- 2000
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Lotta continua e quel presidio dei mass media
La promozione di Gad Lerner alla direzione del Tg1 fra le molte considerazioni possibili sulla vicenda (condotta in modo davvero poco elegante a sentire il direttore silurato Giulio Borrelli) e sull´uomo stimola quella sulla straordinaria fortuna nel giornalismo e nelle professioni intellettuali di quel gruppo che, giovane nel ´68 e dintorni, si riconobbe in Lotta continua e partecipò alle vicende del gruppo fino allo scioglimento nel 1976. Diceva La Rochefoucauld qualche secolo fa che vi può essere merito senza successo, ma non vi è successo senza qualche merito. Credo sia vero. Ma osservando le brillanti carriere dei vari Deaglio, Lerner, Rinaldi - che ai tempi si chiamava Rinaldi Tufi - Santoro, Liguori, Manconi, Protti e via scendendo, bisogna chiedersi quale sia il loro merito e perché esso venga in qualche modo sempre ricollegato a quella lontana vicenda giovanile.
A parte chi del reducismo ha fatto una professione, come Mario Capanna, o della pubblica conversione l´occasione per una nuova carriera, come Brandirali, la stragrande maggioranza di quelli che parteciparono con qualche ruolo da protagonista alla contestazione studentesca ha preferito negli anni distanziarsi silenziosamente dall´esperienza. M´hanno raccontato casi di imbarazzate ammissioni e apologie quando si è giunti all´agnizione sotto le vesti del pubblicitario scatenato ed elegantone, o del deputato craxiano, dell´antico contestatore. E chissà se il collega che partecipava alle manifestazioni col fazzoletto sul viso e ha vinto una cattedra di rapina ha mai raccontato ai figli la storia della sua giovinezza e, visto che c´era, i modi della sua carriera. Anche lui per la verità era di Lotta Continua, ma non costituisce la regola. Quelli del gruppo solitamente non hanno né nascosto né rinnegato la loro esperienza. Anzi l´hanno esibita orgogliosamente come un legame che resiste al di là delle scelte differenti degli anni maturi.
L´hanno considerata parte del loro merito insomma. E così quelli che a loro hanno dato fiducia. Però non poteva stare la qualità di quel merito nel valore intellettuale delle loro analisi, che si sono rivelate tutte sbagliate tanto che loro stessi hanno sciolto nel ´76 il gruppo, né in una qualche profonda eticità delle loro posizioni, che anzi: come i commenti all´uccisione del commissario Calabresi allora dimostrarono. Nemmeno nella capacità di assumersi in qualche modo la responsabilità del costo delle illusioni di chi li aveva seguiti. Il caso di Leonardo Marino, il testimone contro Sofri nel processo Calabresi, racconta qualcosa in proposito. Se altri, come Avanguardia operaia o Servire il popolo, cercavano programmaticamente un soggetto sociale cui collegarsi, fosse il mitico «operaio massa» o i sottoproletari delle periferie, Lotta continua pretendeva di dire il movimento stesso, di rappresentare e interpretare essa stessa la realtà in movimento.
A parte il gruppo, culturalmente ben più solido, del Manifesto, Lc era quello più intellettualistico, ma anche quello meno vincolato, alla fine, a una analisi rigidamente marxistica della realtà. Era da questo punto di vista il gruppo più leggero, meno preoccupato di una coerenza di prospettiva di lungo periodo, quello che si realizzava più degli altri nella manifestazione e nella polemica quotidiana, nella lotta che visibilmente continua, per l´appunto. Meno impacciato dall´ideologia se vogliamo, più vitalista. Tant´è vero che fu l´unico a poter proclamare il proprio consapevole autoscioglimento, piuttosto che ostinarsi contro la realtà estenuandosi in una lenta dissoluzione o metamorfosi come gli altri movimenti. Forse per questo quell´esperienza ha potuto continuare a unire personaggi dai percorsi tanto differenti e ha potuto continuare a essere rivendicata, e diventare parte del merito. Lc come modo d´essere, leggero, pragmatico, abile nella tattica e disinteressato alla strategia, pronto a cogliere le situazioni, dialettico ma senza troppo peso di responsabilità. Spregiudicato per vitalistica superiorità.
Potevano dei giovani brillanti con queste caratteristiche restar prigionieri a vita delle scelte fatte allora? Non era il caso di metterle a frutto nel vasto mondo? Ovunque vi fosse chi sapeva apprezzarne il metodo, posto che dei contenuti si erano liberati da soli? E dove questo poteva accadere meglio che nel giornalismo, là dove la realtà si riflette necessariamente nell´interpretazione, si può combinare e rifrangere all´infinito e nel gioco degli specchi, fra piazza e conduttore, si possono indossare mille maschere, e poco importa il volto, e se c´è ancora.
19/06/2000