Università Cattolica del Sacro Cuore

Ma dov'era la società civile?

E´ un vero peccato che le discussioni suscitate dalla decisione del presidente Ciampi di ripristinare la parata militare per la festa della Repubblica di domenica abbiano seguito vecchi clichés, riesumato polemiche antimilitariste di ascendenza fortemente ideologica come quelle di Bertinotti, o vagamente ecopacifiste come quelle di Grazia Francescato.  

Mentre i soldati italiani vengono inviati sempre più spesso in giro per il mondo a compiere missioni di pace e se ne riconosce internazionalmente la capacità, mentre insomma le forze armate rinnovano così, almeno in parte e si spera sempre più, la propria identità e, malgrado qualche episodio deplorevole e ingiustificabile, contribuiscono a far riconoscere positivamente il nostro paese, negare loro un pubblico riconoscimento quale quello rappresentato dalla sfilata significa bloccare l´evoluzione loro e quella stessa della comune identità e sensibilità sociale.  

E sarebbe bello e significativo, in questo senso, che fossero proprio i corpi più impegnati in attività di impegno civile in armi a esser chiamati a rappresentare nella sfilata tutte le forze armate.   Detto questo, si deve aggiungere però che le critiche all´iniziativa presidenziale possono avere un fondamento nel contestare la riduzione alla sfilata del momento più pubblico e partecipabile della festa.  

Enfatizzare infatti il dato della nazione in armi attraverso l´esibizione dei corpi armati comporta rimaner fermi a una idea di Repubblica come Stato potenza, e di identificazione per eccellenza dei cittadini quali soldati, storicamente assai datata e sempre meno coerente con la realtà, tanto più ora che sta per scomparire il servizio di leva e mentre aumenta comunque fra i giovani la richiesta di svolgere un servizio civile alternativo a quello militare, che rappresenta, e sempre più rappresenterà, non più un dovere ma una scelta.  D´altra parte la naja non costituisce ormai nella sensibilità generale il rito di passaggio dei giovani maschi all´età adulta, e il vecchio detto malizioso secondo il quale «chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina» ha perso da tempo ogni risonanza.  

Paradossalmente, poi, invitare alla sfilata i presidenti delle regioni e dei capoluoghi di provincia invece di innovare la cerimonia ne rafforza la ritualità antica, evocando una sorta di contrapposizione tra un´Italia plurale e civile rappresentata dai suoi amministratori e una prepolitica e statale incarnata dall´esercito, cui - lo ripeto - non si rende così nemmeno un buon servizio.   Come se la dinamica fra unità del paese e autonomie nello stesso si potesse dire solo, o soprattutto, in termini di centro disciplinante e periferia subalterna.  

Certo non sono queste le intenzioni del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ma sarebbe bene che a diverse intenzioni corrispondessero diverse, e nuove, ritualità.  Si parla di festa della Repubblica, ebbene si renda chiaro che di festa si tratta. Accanto ai momenti solenni, come la sfilata, si pensino forme e momenti di partecipazione collettiva, attraverso i quali sia detta una identità italiana più ricca e articolata di quella che può significare la sfilata militare da sola.  Sia un far festa di tutti, e oserei dire di ciascuno a suo modo, magari chiamando in primo piano ogni anno una realtà collettiva che testimoni dei tanti modi dell´impegno civile, o culturale, o della solidarietà comune, o del sacrificio per il bene comune, degli italiani invitandola magari a farsi essa stessa patrocinatrice, con l´aiuto dello Stato sia chiaro, di feste per tutti - e che siano vere feste - non solo a Roma ma in tutt´Italia.  

E potrà essere un anno l´Avis, un anno l´associazionismo sportivo, un altro le tante bande musicali del nostro Paese. E così via.  

 È solo un´idea, ma se i sindacati hanno reinterpretato la festa del lavoro col grande concerto del primo maggio a Roma accanto ai tradizionali comizi, se i francesi hanno fatto sfilare sui parigini Campi Elisi la nazionale di calcio vincitrice dei mondiali di calcio (e in cui militavano giocatori di origine africana) riunendo una folla incredibile e felice, perché la nostra Repubblica non può rinnovare essa stessa una volta l´anno, in forme meno paludate e più prossime al sentire quotidiano, l´idea di Patria? Perché la nostra Repubblica non può rinnovare la consapevolezza di una comune appartenenza italiana che ormai ha quasi centoquarant´anni e nella quale sono confluite, e ancora si distinguono, accanto ai tratti comuni, tante storie diverse, non da annullare o paternalisticamente controllare, ma da conoscere e riconoscere perchè vivificatrici della nostra stessa specificità nazionale? Più che restaurare le forme e le cerimonie dello Stato potenza e della patria come Stato cerchiamo insomma di riassumerle in un contesto diverso, di un civismo esso stesso tutto da rinnovare.


04/06/2000