Università Cattolica del Sacro Cuore

Quei peccati del Partito dei puri

La polemica innescata dal libro einaudiano di Angelo D´Orsi dedicato a La cultura a Torino tra le due guerre (pp. 337, £. 38.000), non accenna a placarsi. La questione del grado di compromissione con il regime, della cultura torinese, di ascendenza variamente democratica e di impronta prevalentemente azionista, a più di sessant´anni dai fatti è ancora scottante. Sembra diventarlo anzi sempre più a mano a mano che l´apparire di studi e documenti, o la estrema confessione degli ultimi protagonisti viventi - è il caso di Bobbio, il quale ha confessato pubblicamente la ormai famosa sua lettera giovanile al Duce scritta a tutela delle proprie prospettive di carriera accademica - rende più profonda la conoscenza di uomini e vicende.

Invece di facilitare una comprensione complessiva della storia culturale torinese, i nuovi dati provocano rigurgiti di passione, vendette postume, distinguo sottili. Non ce n´è da stupirsi. Verrebbe infatti da dire che chi è colpa del suo mal pianga se stesso. La ricostruzione ufficiale della storia intellettuale dell´Italia repubblicana in questi cinquant´anni ha fatto degli intellettuali torinesi tra le due guerre una esigua pattuglia rappresentativa di quella minoranza di italiani di cui la maggioranza sarebbe stata indegna, vuoi perchè con ignavia asservita al regime, vuoi perchè incapace di pensare da sè, obnubilata dalla tradizione cattolica. E ha elevato la storia di quella minoranza e della sua sconfitta politica dopo la guerra ad apologo di tutti i limiti e le occasioni perdute nel rinnovamento, ancora una volta fallito, del carattere degli italiani.  

Da Natalia Ginzburg, la quale rappresentò implicitamente a confronto in Lessico famigliare e ne La famiglia Manzoni quella minoranza coraggiosa e di fortissima tempra morale con le pavidità, i dubbi e le nevrosi del cattolico Manzoni come da lei immaginato, a Galli della Loggia e alle sue recenti riflessioni sulla supposta identità italiana, tutta una prospettiva pesantemente ideologica ha finito per diventare senso comune. Scoprire ora che quella minoranza non fu tutta così limpida, che non seppe - è questa l´accusa principale che le rivolge D´Orsi - essere davvero maestra ai più giovani i quali l´antifascismo lo appresero dal disastro del regime in guerra piuttosto che dai cauti insegnamenti di coloro che avevano trovato un qualche modus vivendi abbastanza confortevole con il fascismo stesso, significa rimettere in discussione non un episodio e poche figure, ma i criteri interpretativi della storia d´Italia, levare non solo a quelli - ormai morti - ma a chi sul vanto d´esserne seguace nell´esempio ha costruito la propria attuale superiorità intellettuale e morale, la legittimazione a proporsi come maestro di vita e di pensiero. 

E tuttavia mi sembra che dal libro, assai cauto se non nelle conclusioni, possano emergere considerazioni le quali vadano al di là del desiderio, alla fine piuttosto meschino, di castigare trasversalmente piuttosto delle difficoltà dei morti la boria dei viventi. E mi riferisco alle riflessioni che esso suscita sul rapporto fra cultura e potere in tempi bui. Mi sembra infantile saper distinguere solo fra bianco e nero, fra resistenti e collusi. Senza negare gli opportunismi di tanti, resta il fatto che quando tocca vivere in un regime illiberale, e in una condizione di debolezza, può creare più problemi al regime stesso uno strisciante sovversivismo condito magari di omaggi formali al potere che non una facilmente repressa opposizione aperta. Pensiamo al ruolo critico che hanno avuto i dissidenti sovietici, quelli che, non a caso, il regime esasperato preferiva spesso spedire in esilio piuttosto che sopportarne le oblique critiche.

Certo, il giocare su una dissimulazione che rimanga onesta, il seguire una linea che apparentemente plaudendo in realtà sia di sovversione e costruisca un futuro diverso, non è facile. Espone anzi a rischi interiori e a fraintendimenti esterni. E però può produrre effetti dirompenti. Tornando allora alla nostra storia, ci si dovrà chiedere se mentre si riducono a più umane proporzioni gli azionisti torinesi non si dovrà parallelamente rivedere in positivo il giudizio su quel padre Gemelli, ad esempio, nella cui università e con il cui appoggiò si formò una parte così importante della cultura democratica sullo Stato e le istituzioni dell´Italia del dopoguerra. Sarebbe anche un modo per superare davvero una visione mitica della storia d´Italia, fatta solo da minoranze eccelse e dalle loro sconfitte, evocante fantasmi ideali e sempre incurante della realtà.


01/06/2000