Università Cattolica del Sacro Cuore

Crispi, l´eroe che sopravvisse a se stesso

Al principio del Novecento Pirandello pubblicava un romanzo, I vecchi e giovani che oggi si ricorda soprattutto per una pagina famosa a proposito della pioggia di fango che cadeva sulla Roma dello scandalo della Banca Romana, e della crisi dei fasci siciliani, anche della disfatta di Adua in prospettiva. “E il fango s´appiastrava dapertutto, ..., su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto almeno queste, perdio, esser sacre) e su le croci e le commende e le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali”.

Era la Roma della bancarotta del patriottismo, come si disse, nella quale affondavano le speranze di riforma e progresso degli anni risorgimentali e i vecchi, gli uomini della rivoluzione nazionale, trascinavano nel disastro anche i giovani offrendo l´esempio non delle antiche battaglie e delle strenue lotte parlamentari che pure avevano attraversato, ma della corruzione e del clientelismo, del distacco fra quella minoranza che aveva fatto l´Italia e le masse che cercavano altrove ormai maestri e soluzioni, tra i socialisti come tra i cosiddetti clericali. E vi metteva in scena quale grande vecchio, epitome dell´impotenza senile, eroe sopravvissuto a se stesso, il ministro Francesco D´Atri, già valoroso garibaldino, a lungo indomito parlamentare e ora vittima di una moglie giovane e chiacchierata, i cui amici, se non lui stesso, erano coinvolti nello scandalo bancario, e la cui coscienza si disfaceva, i progetti si esaurivano.

Non era detto esplicitamente che fosse siciliano, né capo del governo, ma suggerito sì, e quel nome, Francesco, quel patronimico, D´Atri, che richiamava a Palazzo Adriano da cui veniva la famiglia e la leggenda voleva egli fosse nato, quelle disgraziate vicende coniugali, quella senescenza, rendevano del tutto facile per i lettori dell´età giolittiana, i quali da quel travaglio si pensavano ormai fuori, identificarlo con Francesco Crispi, morto l´11 agosto 1901, 83enne dopo aver attraversato tutte le fasi della storia italiana, dal tempo delle congiure all´unità fino alla terza Italia dei progetti imperialisti africani e della triplice alleanza con gli imperi centrali.

Quello che aveva impersonato tanti attori diversi, tanti volti italiani, seminarista, mazziniano, cospiratore anti borbonico e esule, garibaldino coi Mille, deputato, grande avvocato, rappresentante della Sinistra all´opposizione e al governo, nazionalista e anticlericale, monarchico, ministro, capo del governo, uomo di denari e di affari, di amori e di collegati pasticci legali. Uomo per molte stagioni non per volubilità, bensì per la capacità di adattare alla grande passione per il destino d´Italia i mezzi e le strategie.

Forse l´intelligenza più dura e l´energia più strenua dei decenni postunitari, l´unico di quella classe politica considerato uno statista anche fuori d´Italia, quello che si era posto con chiarezza il problema della nazionalizzazione delle masse, come sarebbe stata chiamata poi dagli storici, e vi aveva risposto dilatando lo Stato e il suo intervento - il ministero dell´Interno, ebbe a dire, non deve essere il ministero di polizia ma della previdenza e provvidenza - promuovendo il culto della patria e l´identificazione tra monarchia e Paese, l´istruzione pubblica anche per accreditare lo Stato al posto della Chiesa nella coscienza collettiva, volgendo il nazionalismo risorgimentale in politica bellicista e di potenza, soprattutto riguardo al Mediterraneo, e cercando un riconoscimento internazionale di cui gli italiani andassero fieri e che li stimolasse oltre, nell´avvicinamento alla Germania bismackiana e nella concorrenza antifrancese.

Non era dunque un caso che egli avesse sollecitato amori e odii appassionati, e che la sua opera e figura potessero fungere da emblema della delusione e sconfitta del mondo liberale come del superamento nel segno autoritario di patria e nazione. E il fascismo avrebbe sottolineato con cura talune coerenze del suo progetto con quello del regime.

Oggi, come nota anche il suo più recente biografo, l´inglese Christopher Duggan, è però una figura quasi dimenticata. E se ne capiscono le ragioni. Della sua cultura e iniziative ben poco l´Italia repubblicana ha inteso farsi erede, tanto più dopo l´uso strumentale che di lui si era fatto nel ventennio. E nel bene e nel male è senza dubbio quella una stagione ormai lontana. Non farci di nuovo i conti tuttavia, rimuovere la figura di Crispi e gli esiti del Risorgimento come egli li rappresentò allora con tanto buonsenso e incerti risultati significa accontentarsi di una versione di comodo del nostro passato, e, paradossalmente se si vuole, tanto più l´Italia cambia, tanto meno questo è possibile.

Nascondere gli scheletri originari nell´armadio della coscienza collettiva, si tratti dell´autoritarismo liberale del Crispi di governo, o del ruolo unificante della monarchia per cui egli tanto si prodigò, o del sovversivismo elitario della sua giovinezza cospirativa, o del programmatico anticlericalismo, significa immaginare che si possa fare dell´amnesia uno stile di vita. Ma senza memoria, si sa, non c´è nemmeno spazio per costruire il futuro.

11/08/2001