Università Cattolica del Sacro Cuore

Fotografia dell´Italia con immigrati

Il più famoso si tenne 2000 anni fa, anno più anno meno. La tecnica era certo meno sofisticata di oggi, le curiosità più rudimentali. Importava sapere quanti erano gli abitanti di una regione piuttosto che cosa facevano e in quante stanze abitavano. Però già allora problemi di emigrazione ce ne dovevano essere parecchi se Maria e Giuseppe, andando a registrarsi presso la loro tribù, non trovarono posto in albergo. Troppa gente in giro evidentemente per le “strutture ricettive”, come si direbbe in burocratese. E il ricovero dei pastori con mangiatoia, bue e asinello come lo si sarebbe potuto catalogare? Forse come “abitazione tipica dei luoghi”, secondo una dizione che ha permesso di accomunare nell´Italia povera di una volta trulli pugliesi e sassi di Matera, casoni di paglia veneti e tabià trentini.

Certo il censimento italiano del 2001 non sarà ricordato per un evento eccezionale e irripetibile come quello che si compì in occasione del censimento di Cesare Augusto laggiù in Palestina, però, nel suo piccolo, non sarà nemmeno un censimento di routine.

Se quello del ´61 raccontò per primo la grande trasformazione economica e sociale dell´Italia del boom e la violenza delle migrazioni interne e i tre successivi la crescita e diffusione del benessere, l´invecchiamento della popolazione e la nuova geografia dell´Italia industriale prima, post moderna poi, quello delle settimane prossime chiederà con l´evidenza dei numeri di un´altra trasformazione che sta avvenendo, a dispetto d´ogni volontà e progetto politico, entro i confini del nostro Paese e ce ne fornirà per la prima volta un quadro generale e abbastanza attendibile. Dico della trasformazione prodotta dall´immigrazione da ogni diverso continente verso l´Italia.

È dai tempi di Longobardi, Franchi e Visigoti da una parte, arabi dall´altra che non si vedevano tante facce nuove in Italia, e venute per restare. A scorrere l´elenco dei nuovi nati in un giorno qualsiasi di questo agosto in una grande città accanto ai vari Gianluca e Francesca, Daniele e Alessandra, troviamo infatti Kreven, Zainab, Ikram, Javier, Beatris, Ionela, Rebeca, Manuel. E chissà se dietro la Nicole dall´inequivocabile cognome siciliano sta solo un piccolo snobismo o non invece una coppia mista e di quante tradizioni è figlia l´Emily dal cognome lusitano.

Non sono lavoratori stagionali questi né mai lo saranno. Per quanto insolite possano apparirci le loro fisionomie così come i loro cognomi e nomi sono già ora dei piccoli italiani. Che si appassioneranno, si spera, all´Atalanta o all´Inter, alla Juventus o al Milan, e penseranno in italiano e si sentiranno spaesati se torneranno a trovare i nonni, così come i discendenti dei nostri emigranti quando ritornano da dove i loro padri partirono. Non c´è più curiosità riguardo al censimento, per sapere quante case hanno l´acqua corrente o quanti sono gli agricoltori o quanti gli operai, che sono sempre meno gli uni e gli altri, ma quanti gli immigrati sì, e come vivono, e dove. Perché senza dubbio è questo il problema più complesso con il quale ci troveremo a dover fare i conti nei prossimi anni. L´immigrazione possiamo e dobbiamo regolarla, è ovvio, ma come non possiamo far tornare i contadini e le tute blu neanche a volerlo, così dobbiamo arrenderci all´evidenza dei Kreven e Zainab.

Certo, oltre 1000 anni dopo, rintracciare come ricchezza culturale del nostro Paese quanto vi hanno portato Germani, Bizantini o Mori, esibire con orgoglio l´origine longobarda, e allora prevaricatoria del Paese natio, o quella berbera del proprio cognome come nel caso di D´Alema, è più facile di quanto non sia esser riconosciuti, o anche solo sentirsi, oggi come i più poveri, i più estranei, i meno rispettati. Chi ci ha riflettuto sostiene che ci sono quattro modi per fare i conti con i nuovi italiani che il censimento ci rivelerà. Obbligarli con le buone o le cattive a divenire al più presto come noi, assimilarli forzatamente cioè conviverci senza interscambio come se fossimo reciprocamente invisibili, chiuderli in ghetti magari con la scusa di rispettarne le tradizioni, integrarli attraverso un reciproco riconoscimento. Non sarà facile, ma è evidente che è l´ultima la via migliore sul lungo periodo perché è quella che dà ma in cambio chiede anche apertura e confronto, istituisce un piano comune di cittadinanza, crea una memoria e una identità tendenzialmente sempre più condivise.

Uno storico famoso, Corrado Vivanti, sta per pubblicare un breve ricordo della sua infanzia di bambino ebreo negli anni Trenta ove narra della meravigliata scoperta del suo essere un diverso solo a causa delle leggi razziali del ´38. So bene, gli extracomunitari sono molti di più e la quantità si converte qui in qualità del problema, ma alla fin fine e in linea di principio la questione non è tanto differente nei suoi elementi, religiosi e culturali, che sono quelli che contano di più. Era, ed è, possibile essere ebrei e italiani, non si vede perché lo stesso non possa accadere con arabi musulmani, africani animisti e cinesi confuciani.

Non sarà facile, non sarà breve, ma se quel “volgo disperso che nome non ha” di cui parlava Manzoni ha saputo integrare i suoi violenti e dominatori immigrati germanici, vogliamo che non ci riescano i ricchi ed evoluti italiani di oggi con immigrati deboli e poveri? Aspettiamo allora questo epocale censimento, e con la fotografia della nuova Italia in mano, mettiamoci all´opera. Senza immaginare di poter ridurre tutto ai contratti di lavoro e alle attese economiche.

25/08/2001