Università Cattolica del Sacro Cuore

Il Cerutti: obeso, ma sempre a disagio

Chissà dove è finito il Cerutti Gino. Forse ha messo la testa a posto, e invece di rubarli gli scooters li ripara, o forse s´è incanaglito, e là ai giardinetti del Giambellino adesso spaccia. Certo quello d´allora non c´è più, come quell´Italia e quella Milano metaforica che un giovane cantautore magro e con un lungo naso ci raccontava alla chitarra tanti anni fa, senza alzar la voce e con un´ironia un poco distaccata. Nessuno lo chiama più drago, e nemmeno c´è un mondo diverso da raccontare. Anche il barbone con “i scarp del tennis” di Jannacci non è più così riconoscibile, alla mensa della Caritas ci vanno pure i pensionati al minimo, vestiti come noi, e quello che faceva “l´operari”, e lavorava “la ghisa per trenta denari”, gli hanno chiuso la fabbrica e si arrangia con lavoretti in nero, indistinguibile anche lui.

Insomma, in fondo al Giambellino sono tutti come noi, tutti obesi, come dice Gaber in una delle sue nuove canzoni, perché “l´obeso è un destino senza scampo”, l´obeso “mangia gruppi finanziari, spot e informazioni, aiuti umanitari, slogan e ideologie, vecchie idee e nuovi miti, tutti i bei discorsi dei politici e dei preti e s´ingurgita la pace, la guerra”, l´obeso “è il simbolo del mondo”. Un mondo che cresce su se stesso tutto assimilando, “senza il minimo disturbo, senza vomitarlo mai e vive solo nel presente, immemore del passato, incredulo di mutamento.

Gaber aveva raccontato l´impegno e la politica, negli anni Ottanta ironizzato sulla fuga nel privato, a farsi un bello shampoo, oggi guarda con nostalgia a quel primo tempo della sua generazione, piazze gremite “di gente appassionata sicura di ridare un senso alla propria vita” ma anche al secondo perché “amore, quello che ci manca si chiama desiderio”, che è “il primo impulso per conoscere e capire, è la radice di una pianta delicata che se sai coltivare ti tiene in vita”. Insomma tutte le strategie del passato sembrano aver fallito, ci dice Gaber, ancora una volta testimone malinconico del tempo, perennemente a disagio con i suoi contemporanei.

Questa è la sua cifra, questo il suo stile, questo, come si sarebbe detto una volta, il suo messaggio. Che non prevede “cieli azzurri e grandi praterie”, nemmeno in sogno. E nemmeno in principio di quel suo “canzoniere minimo” c´erano per la verità. Il paesaggio di Gaber è sempre stato esclusivamente umano. Ha accompagnato e raccontato in questo modo la vicenda di una generazione, a questa ancora oggi si rivolge: quelli che erano “i giovani più giovani, l´esercito del surf” come cantava un´altra che ha saputo sopravvivere come Catherine Spaak, e oggi scivolano senza molta eleganza verso la terza età. Per loro Gaber ha aggiunto un nuovo capitolo, uno che sembrerebbe ancor più amaro di quelli del passato, lo specchio impietoso delle nostre attuali miserie di generazione che voleva tutto e subito, dare l´assalto al cielo, e scopre di essersi incamminata “verso il terzo millennio” senza più saper dire “che cosa c´è di vero nell´arco di una vita tra la culla e il cimitero”.

Certo, il rischio di apparire facile moralista c´è, ma non è colpa di Gaber se siamo messi parecchio male, e non è spezzando il termometro che la febbre scompare. E d´altra parte egli è troppo intelligente per non sfuggire anche a questa trappola, quella di veder tutto nero per far spallucce a tutto. E infatti confessa che “viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po´ anormale, di inventare una morale”. Insomma di ricominciare da capo, per ritrovare lungo la strada, se possibile, e la politica e il privato, il senso del passato, la passione per il futuro, e “io possa finalmente dire questo è il mio posto, dove rinasca non so come e quando il senso di uno sforzo collettivo, per ritrovare il mondo”. Magari. Così che anche il Cerutti Gino, se ravveduto, possa sentirsi di nuovo un poco drago.

12/04/2001