Università Cattolica del Sacro Cuore

Il triste peso delle armi: è sottile la distanza fra giustizia e vendetta

“Avrete sempre paura”, ha promesso Bin Laden. E mi è venuto in mente un verso di Eliot, se non ricordo male, “vi mostrerò la paura in un pugno di polvere”. Qui, il riferimento è ovviamente alla vanità delle vanità, al limite che la morte impone ai progetti umani.

Non è la paura che vuole incutere la violenza, quella della sopraffazione e della crudeltà che ci minaccia lo sceicco attraverso il suo messaggio minatorio. E´ un timore salutare quello che evoca il poeta, è quello che l´uomo dovrebbe sempre aver presente per non cadere nel delirio dell´onnipotenza, per affrontare con umiltà ciò che la vita gli chiede e anche ciò che egli chiede alla vita. E´ insomma un atteggiamento simmetrico e rovesciato rispetto a quello espresso nella soddisfazione per i morti americani dell´11 settembre, nella chiamata alle armi per affermare il regno di dio sulla terra secondo l´incitamento dello stesso Bin Laden. Ma credo sia anche la chiave per definire un giusto comportamento nell´uso della potenza e della violenza.

Ci possono essere guerre giustificabili perché alla fin fine inevitabili, ma non ci sono guerre sante. E se una guerra contro il terrorismo si proponesse come guerra santa diventerebbe immediatamente ingiustificabile perché chi la conducesse così si proporrebbe come depositario della Verità, pretenderebbe che tutto in lui sia assolutamente buono. Mentre sappiamo bene che nel cuore umano e nelle migliori intenzioni corrono sempre il rischio di annidarsi motivazioni di opportunità, che immaginare il proprio cuore come ovviamente puro è un ingannarsi sulla complessità e l´imperfezione strutturale dell´essere umano, e a maggior ragione quando in gioco non siano soltanto vicende individuali ma interessi collettivi giganteschi per quanto legittimi.

Quando Bin Laden contrappone alle sofferenze promesse all´Occidente quelle patite dai palestinesi o prodotte in Giappone dall´uso della bomba atomica, la risposta non sta nel dire che si tratta d´altro, che non è quello il problema e così via. E´ vero, nemmeno noi siamo senza responsabilità per il male passato e presente, è vero, nessuno è in grado di conoscere fino in fondo e controllare gli effetti delle sue scelte e la giustizia perfetta non è di questo mondo. E dobbiamo saperlo e portare il carico dell´imperfezione.

Ma non è certo rivendicando la logica dell´occhio per occhio, dente per dente che ad essa ci si avvicina per quanto possibile. Così l´ingiustizia patita da chi senza colpa è scomparso nel vento atomico o di chi, come i palestinesi, è stato usato dentro un gioco più grande di loro da amici e nemici, non si risarcisce producendo altro selvaggio dolore. E chi così invece la pensi come Bin Laden non può non esser posto in condizione di non nuocere, proprio per avvicinarsi per quanto possibile a una condizione di giustizia e pace.

Ma nel proporsi questo bisogna aver sempre paura di se stessi, di quella complessità del cuore che può rendere tanto sottile la distanza fra giustizia e vendetta. Il problema dunque non è se si debba o meno fare la guerra o appoggiarla, quanto il modo della medesima, il condurla come un peso tristissimo non esaltandosi in essa e per essa. Né nascondersi che gli effetti della lotta a Bin Laden offrono l´occasione anche per perseguire strategie che vanno oltre il terrorismo e hanno a che fare con il legittimo desiderio di pacificare una zona strategica del mondo per la distribuzione delle risorse eenergetiche in un modo che anche a noi convenga, né che la strumentalizzazione del nodo palestinese da parte di Bin Laden ha prodotto come effetto un impegno maggiore dell´Occidente per la sperabile risoluzione del medesimo.

Insomma non facciamo dei terribili torti del terrorismo la prova della nostra virtù, e combattiamoli senza incertezze ma con dentro la paura, quella del poeta, non di Bin Laden.

09/10/2001