Università Cattolica del Sacro Cuore

L´Italia è di moda, eppur non s´è desta

“La parola "Italia", concretezza e attualità”. E´ stato il tema di un convegno a Firenze che ha chiamato a raccolta i vari maitres à penser delle diverse aree culturali, assieme a politici come Giuliano Amato. A quanto se ne legge, ognuno vi ha recitato la sua parte. In rappresentanza degli eredi della ditta laica Scalfari ha ribadito che la storia la fanno le élites e che l´Italia durante il Risorgimento non la potevano certo costruire le masse, e ha deprecato i revisionismi che valorizzano insorgenze e resistenze magari borboniche.

Con il revisionismo se l´è presa pure il cattolico Scoppola, per negarne però un altro: quello per il quale l´8 settembre sarebbe morta la patria. No, solo l´interpretazione fascista del termine, così che - aggiungo io - il fascismo si possa rappresentare ancora una volta come deviazione e malattia morale, non come parte ineludibile e incontornabile (piaccia o no) della nostra esperienza nazionale, e si possa fare dell´incontro nella Costituente delle tradizioni socialista e cattolica il compimento di una storia secolare, solo interrotta superficialmente dal Ventennio, e oggi da proseguire.

Non è mancato ovviamente chi se l´è presa invece con lo strapotere clericale, a spiegare la debolezza dell´identità storica italiana. Né chi se l´è cavata, certo brillantemente perché aveva l´evidenza dalla sua, insistendo da storico come Cardini o da sociologo come Diamanti, sulla forza paradossale di una identità debole e policentrica. E Amato pure ha ripetuto che il risultato - o la premessa: poco importa - è lo scarso prestigio dello Stato, frutto della miopia di una classe politica che ha la cultura dell´Italietta, e si sente più a suo agio proponendosi ultima della classe in Europa e incapace di far valere, o addirittura di riconoscere essa stessa, che l´Italia è uno dei dieci grandi paesi del mondo, e bisogna agire di conseguenza.

Ciliegina sulla torta, il ministro De Mauro, quello che ha appena firmato una tragica riforma della scuola nella quale di fatto l´insegnamento della lingua attraverso la sua letteratura perde di peso, come la memoria storica tout court: s´è lamentato che non si sappia usare bene l´italiano.

Insomma, ognuno s´è salvato l´anima e ha tirato l´acqua al suo mulino. Alla fine penso fossero tutti contenti d´essersi reciprocamente riconosciuti tanto pensosi. Nessuno, per quanto s´è capito dai resoconti del convegno, ha infatti compiuto un passo oltre, così da fare davvero i conti con la storia della costruzione della nostra identità di italiani, e turbare gli altri. E per forza. Troppo pericoloso avventurarsi in mare aperto, meglio ripetere il copione e stare ognuno alla propria parte collaudata. Il rischio altrimenti è di esser buttati fuori dalla compagnia di giro.

Niente palcoscenici, niente applausi. Tristissimo. E pure bisognerà provarci a dire qualcosa di diverso. In estrema sintesi, si tratta a mio avviso del fatto che la nostra comune cultura moderna di italiani, quella nella quale ha senso la parola “nazione” in connessione con la politica e lo Stato, si fonda su un rimosso e una negazione. Quella del senso della nostra storia culturale. Lo troviamo detto bene nel testo fondativo e progettuale della nostra moderna identità, quella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis che si conclude con l´appello a far nostra la modernità abbandonando le viziose tradizioni dell´accademia e dell´arcadia identificate come causa e conseguenza della famosa “decadenza italiana del ´600” cui si era felicemente contrapposto il Risorgimento ottocentesco (vedi Scalfari).

Diversamente da tutti gli altri paesi d´Europa noi abbiamo inserito una cesura nella nostra storia culturale, e invece di accettare la nostra storia stessa e indagarne il senso (l´Italia come luogo principe di elaborazione del classicismo d´antico regime e della sua forma del vivere europea - perché in tutte le storie culturali nazionali d´Europa a un certo punto ci si trova a dover passare per l´Italia), ci siamo vergognati degli antenati, e ci siamo costretti a inventarci una storia familiare fasulla, fatta di prescrizioni e non di ricordi.

Tagliate a un certo punto le radici della memoria per diventare più presto “come gli altri”, non abbiamo più saputo bene chi siamo. E senza memoria del passato non ci può essere senso del presente e progetto del futuro, ovvero identità. Eresie e follie queste? Ma certo, stia serena la compagnia di giro.

Non le toglieremo la piazza. Però sono pronto a scommettere che fra vent´anni saranno (quasi) senso comune. Comunque qui sta il problema. E come dicevano gli antichi, hic Rodhus, hic salta.

16/02/2001