Università Cattolica del Sacro Cuore

Ma il mondo si governa con tanti punti di vista

Come al solito l´America sconcerta. Si sprecano le lodi per i risultati economici di Clinton, ma si riconosce che sta per arrivare il momento in cui si dovranno pagare i conti dello sviluppo a credito degli anni passati, lo si esalta per la capacità d´azione sul piano internazionale, ma si constata che la sua politica estera lascia al successore tutti i principali problemi irrisolti, dai Balcani alla Russia, dal Medioriente a Cuba, ci si inchina allo statista ma per il disagio sociale non si sa quali ricette abbia approntato, se ne esalta la statura ma si apprende che solo un accordo in extremis con la magistratura lo salverà da un umiliante processo per gli strascichi del pecoreccio caso Lewinski.

E gli americani che lo rimpiangono non hanno tuttavia promosso il suo vice che ne avrebbe continuato la politica.

Ma, al tempo stesso, il nuovo presidente Bush si presenta con un profilo volutamente basso, e s´affretta ad annacquare le più bellicose ma vaghe dichiarazioni della campagna elettorale. E neanche è insediato che già s´è fatto impallinare e dimettere un ministro. E in mancanza d´altro si disquisisce sulle differenze fra Hillary e Laura, la brillante avvocatessa ambiziosa e nuovo senatore di New York da un lato, l´ex bibliotecaria tutta casa e famiglia dall´altro. E in modi diversi, si sospetta, i veri uomini nella coppia.

Come in qualunque buon film americano insomma l´inquadratura non dura più d´un attimo, e la realtà si presenta varia e cangiante, anche se luogo e protagonisti sono sempre gli stessi. La coerenza del piano sequenza è affare e pretesa morale da europei. Che i film americani vanno poi a vedere con gran gusto e inquieta sensazione che a loro, a noi cioè, qualcosa alla fine sfugga, qualcosa che lascia sterile, o peggio, impropria, la pretesa di superiorità culturale.

Il fatto è che come tutte le culture imperiali anche quella americana non ha preoccupazioni filologiche, assorbe e ricicla, usa per i propri fini e a sé riporta tutto. Nelle scorse settimane c´è stata una vivace polemica giornalistica innescata da Gore Vidal il quale ha sostenuto che Roosevelt riuscì a portare in guerra gli americani riluttanti, e poco preoccupati dei destini della democrazia nel mondo, solo condizionando indirettamente i giapponesi a preferir la scelta del conflitto e l´attacco a Pearl Harbour.

Vero o falso che sia, testimonia comunque dell´idea che gli Usa siano soggetto e non oggetto delle trame politiche, al punto da poter manipolare persino gli avversari che si scelgono. La realtà è certo meno semplice, e soprattutto in un sistema a rete come quello del mondo globalizzato nessun nodo può dirsi propriamente centrale, ma non vi è dubbio che la capacità di azione e la pretesa di riduzione della complessità al proprio punto di vista degli americani - per nulla preoccupati, sembra, dalle contraddizioni cui sopra accennavamo - è un fatto; e costituisce un problema politico generale per tutto il resto del mondo.

Oltre che condizionare, a sua volta, il modus operandi di qualunque presidente, per il quale ogni questione internazionale ha un fondamentale risvolto nel gradimento dell´opinione pubblica interna. Dicono i semiologi che noi siamo (molto) parlati dal discorso che facciamo, che al di là della nostra stessa consapevolezza sono gli schemi ricevuti e inscritti nel discorso a piegare i nostri pensieri. Nulla fa presagire che Bush abbia la tempra di un Roosevelt, forse l´ultimo capace - al di là della vicenda appena evocata - di esser lui padrone delle regole del discorso.

È giusto allora che i commentatori si soffermino a proposito del nuovo presidente sulle note di colore: la cucina semplice, la mamma importante, gli orari da buon padre di famiglia. Di davvero nuovo ci sarà poco. E magari fosse vero che i problemi si risolvono quando i politici smettono di occuparsene!

21/01/2001