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- 2001
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Questi summit che diventano una macchina teatrale
Nell´intervista a “L´Eco” di due giorni fa Andreotti esprimeva molte perplessità sull´utilità del G8. Altrettanto ha fatto poi Prodi da Bruxelles. È fuor di dubbio che la formula qualche problema ormai lo rivela. E anche senza pensare ai fatti di oggi. In effetti, come spesso accade, il G8 è stato vittima del suo stesso successo, di quello mediatico soprattutto. Perché da questo punto di vista che sia un successo sempre più grande a mano a mano che passano gli anni e gli incontri si succedono, nessuno può dubitare.
Quel che era nato venticinque anni fa come un incontro di lavoro per coinvolgere i maggiori Paesi del mondo nella responsabilità per la gestione dell´economia mondiale vive ormai più del suo aspetto cerimoniale che della sostanza medesima, gioca la propria fortuna più sull´enfatizzazione degli annunci che non sui risultati, insiste per abbagliare con l´immagine mitica dei più potenti della Terra riuniti assieme più di quanto non possa fare con l´annuncio di scelte clamorose.
E crescendo l´immagine, cresce l´effetto palcoscenico della riunione, che diviene la miglior scena per ogni protesta, occasione d´esibizione per problemi veri e trovate estemporanee, lancio d´allarmi reali e rilancio di carriere politiche in difficoltà, ove il folclore giovanilista delle manifestazioni corre il rischio di appagarsi nella rappresentazione vitalistica dello star bene insieme cantando e sfilando.
Quando non si risolva invece nella tragedia e nella morte come è purtoppo già accaduto. Il rischio insomma, che sta diventando sempre più evidente a Genova, è che il G8 sia dal lato di chi lo organizza sia da quello di chi lo mette in discussione, possa crollare sotto il peso del suo stesso gigantismo, si riveli come un apparato effimero, una gran macchina teatrale, quale quelle rappresentazioni di trionfi e mondi fantastici con i quali venivano accolti secoli fa principi e re all´ingresso nelle città. Ma allora a cadere erano solo pupazzi di stracci, non uomini in carne ed ossa. La rappresentazione era ciò che dichiarava d´essere, non altro. Ma c´è un motivo di più nella lunga prospettiva per dubitare del valore se non di questo G8, che qualcosa cerca pure di fare, certo di quelli che seguiranno a mano a mano ci si inoltrerà nell´età della globalizzazione.
Il primo si riunì - allora i Grandi erano cinque, poi arrivarono il Canada e noi, infine la Russia - appena un paio d´anni dopo che Nixon aveva confermato la inconvertibilità del dollaro, sospesa nel ´71. Era finito con quell´atto il sistema economico internazionale impostato dagli accordi di Bretton Woods del luglio 1944. Quello fondato sulla garanzia mondiale offerta dalla superpotenza americana. La quale al principio degli Anni Settanta dichiarava per l´appunto che il mondo stava diventando troppo complesso per esser ridotto a sistema da una autorità superiore, persino dagli Usa. Era l´inizio della globalizzazione, l´avvio di un sistema economico senza più centro e forma definita, una rete in cui quasi innumerabili essendo i protagonisti grandi e piccoli, il processo decisionale non finisce mai, le microdecisioni si aggiungono l´una all´altra, le conseguenze lontane divengono imprevedibili, gli Stati possono contare meno dei privati, i soggetti economici farsi attori politici, e viceversa.
E in cui pensare che esistano otto Grandi (e fossero pure nove o dieci la sostanza non cambierebbe) capaci di determinare il destino del mondo diventa paradossale. Perché nega proprio le caratteristiche del fenomeno, la globalizzazione, che vorrebbe affrontare. Basta G8 allora? Forse sì a giudicare dallo sbilancio fra esiti tragici e attese medianiche; forse no, se tutti si faranno un bel bagno d´umiltà e riconosceranno con le altrui le proprie responsabilità, come con le altrui le proprie impotenze.
21/07/2001