Università Cattolica del Sacro Cuore

Se il sapere diventa solo istruzioni per l´uso

Dopo le roventi critiche ai progetti di riforma scolastica del centrosinistra, nemmeno quelli del nuovo governo sembrano metter tutti d´accordo. E questo malgrado proprio da Berlinguer vengano lodi alla Moratti. Evidentemente in proposito vi è nella società un malessere che va oltre gli schieramenti politici, oltre, si vorrebbe dire, lo stesso accordo fra le due parti su alcuni punti ritenuti qualificanti, quali la più chiara definizione della formazione professionale o la flessibilità dei percorsi nelle superiori, e capaci di consensi bipartisan, come oggi s´usa dire.

Se il mondo politico si misura in effetti con le soluzioni pratiche, e largamente vi si ritrova, restano in ombra i presupposti di quelle soluzioni, mentre proprio su di essi, per quanto confusamente, si interroga la società. Per dirla in modo sintetico, che rapporto c´è oggi fra educazione e istruzione? Perché è questa la domanda da rendere esplicita e su cui chiedere ai riformatori di qualunque tendenza di prender posizione, quella sulla quale, alla fin fine, si misurano anche gli altri problemi discussi in ambito scolastico e formativo: dal ruolo delle scuole non statali a quello delle famiglie, dalla funzione dei docenti ai rapporti fra scuola e lavoro, per citarne solo alcuni. Anche se, andando al fondo di quella domanda nemmeno ad essi ci si può fermare.

Chiarire quel rapporto significa in effetti accettare di fare i conti con modelli e prospettive generali, e di lungo periodo, e con quella che sembra oggi la loro crisi ed esaurimento. Si può dire che fino a pochi secoli fa nella cultura occidentale educazione ed istruzione sostanzialmente coincidevano. Non solo vi era un unico curriculum di studi elementari e medi, ma gli stessi saperi per noi specialistici erano semplici declinazioni di un comune sapere che formava al saper vivere piuttosto che a una specifica professione, che educava nel senso di completare la natura conducendo l´uomo alla vita civile.

L´esempio della medicina è significativo. I medici erano in sostanza dei filosofi che si applicavano al mondo fisico. Infatti erano nettamente separati dai chirurghi, meri pratici, norcini e barbieri, che toccavano e se del caso aprivano il corpo umano. Di quell´antica dicotomia è traccia ancora nella dizione della facoltà attuale, detta “di medicina e chirurgia”. Così come altra professione era quella dell´ostetricia, riservata alle donne e fondata anch´essa sulla mera pratica. Quel sapere generale per il vivere civile era a sua volta formato su quelle che si chiamavano complessivamente le umane lettere.

Pensando che lo scopo ultimo era di formare al virtuoso vivere associato ben si comprende come storia e poesia, filosofia e retorica, matematiche e lingue antiche ne costituissero il nerbo, educando attraverso l´esempio degli antichi, a ben comportarsi in un mondo che non conosceva l´idea di progresso e nel quale il passato poteva dunque fornire l´insegnamento per il futuro.

Dal tardo Seicento in poi proprio l´apparire della fiducia nel progresso cambiò radicalmente le cose. I saperi si specializzarono e si ritennero tanto più forti in quanto capaci di risultati cumulativi. Le scienze che studiavano il gran libro del mondo e trovavano risposta ai mali dell´uomo e della società con nuove scoperte e invenzioni cominciarono a guadagnare spazio e rispetto. Tanto che i medici, per tornare all´esempio, smisero di disprezzare i chirurghi e le ostetriche e si vollero sempre meno filosofi e sempre più tecnici e scienziati.

Da allora fino ad oggi il problema è stato di combinare la tradizione delle umane lettere, che formavano pur sempre al vivere si pensava, che coltivavano l´uomo, gli davano dunque una cultura, con la novità dei saperi pratici e scientifici che permettevano di viver meglio. I discorsi che si fanno attualmente sulla necessità di conoscere internet e l´inglese, di costruire percorsi professionalizzanti, di collegare la scuola e l´università al mercato del lavoro, che fanno dell´economia il parametro del valore di ogni conoscenza, la quale deve essere “operazionale”, l´odio berlingueriano per le lettere, sono gli ultimi esiti di questa vicenda.

Con la dichiarazione, che si trova espressamente in scritti pedagogici (!) che un conto è la cultura un conto il sapere professionale, si giunge alla rivendicazione di una istruzione autonoma dall´educazione, o se vogliamo di una istruzione come educazione, un progetto nel quale la coltura per l´appunto, non servendo a nulla di pratico, è solo un fastidioso retaggio del passato. Ma il trionfo di tale prospettiva non costituisce una vittoria di Pirro - e scusate la citazione classica- per chi la sostiene? Oggi, nel momento in cui che vi sia progresso è sempre meno chiaro, e sempre più drammatiche sono le implicazioni del mutamento (la medicina insegna, una volta di più) è ancora il caso di affidarsi alle soluzioni impostate tre secoli fa? Basta istruire senza preoccuparsi, nella sostanza, di educare?

Tanto più che la stessa continua frammentazione dei saperi tecnici dimostra che la rincorsa alla mimesi del mercato è senza fine e spezza le connessioni anche entro questi stessi saperi, sempre più dunque senza fondamento e senza reciproca relazione. E tanto più infine che gli stessi “scienziati” esaltano sempre più spesso la capacità d´innovazione come fondamentale, ritrovandola però nel pensiero laterale, nella capacità di rompere gli schemi e le procedure normali, così dichiarando che il loro sapere cumulativo si va facendo sempre più sterile. E dunque, cari ministri passati e presenti, vicini e lontani, che cos´è per voi l´educazione?

07/12/2001