Università Cattolica del Sacro Cuore

Verdi, e il pensiero va al Risorgimento

Giusto i padri della patria e Dante possono competere con Verdi in un´ipotetica classifica tra i più onorati dalla toponomastica delle città italiane. Nemmeno Manzoni, pur tanto ricordato, può tenere il passo. Così come arie e parole delle opere di Verdi fanno parte del bagaglio culturale, per leggero che sia, di tutti gli italiani. Anche chi non è mai stato all´opera conosce la marcia dell´Aida, la gelida manina di Violetta e la vorrebbe riscaldar, sa che la donna è mobile qual piuma al vento, i cortigiani una vil razza dannata.

E come i Promessi sposi hanno dato luogo a una immaginaria geografia lariana, così a Mantova vi indicheranno la casa di Rigoletto e la taverna di Sparafucile. Dire Verdi insomma è dire Italia. Se ne accorsero nel 1953, esterrefatti e intimoriti, anche gli ufficiali inglesi che assistevano a Trieste, ancora sotto controllo alleato, a un Nabucco durante il quale al coro del “Va pensiero” si unì, alzandosi in piedi a cantarlo, tutto il teatro. Gli studi più recenti negano che quel coro, e in generale le opere degli anni Quaranta, come “I lombardi alla prima crociata” o “Ernani” siano state intese prima del Quarantotto quali indicazioni di consapevole patriottismo politico.

Di una ideale identità italiana magari sì, ma tutta culturale. Tant´è vero che le censure dei regni preunitari furono più preoccupate, per dirne una, della scandalosa Violetta, la quale divenne a Napoli, da traviata e mantenuta, una “nubile” rifiutata perché non nobile, di quanto non lo fossero dell´“o mia patria, si bella e perduta” invocata dal coro degli ebrei nell´esilio babilonese.

D´altra parte Nabucco in prima rappresentazione a Milano nel 1842 fu dedicato da Verdi alla giovane Maria Adelaide d´Asburgo in procinto di sposare il principe Vittorio Emanuele di Savoia, il quale con quel matrimonio sembrava indicare propositi di duraturo accordo piuttosto che intenzioni bellicose della sua casata nei confronti dell´impero austriaco. Non vi è dubbio tuttavia che dopo il Quarantotto, chiaritisi sensi e progetti politici, le opere di Verdi fornirono potenti materiali emozionali agli italiani in cerca di un loro Risorgimento nazionale e ne diffusero questo significato anche all´estero favorendo l´identificazione tra Verdi e l´Italia in quanto tale.

Egli stesso, d´altro canto, si propose dopo di allora apertamente come patriota, e fu, ad esempio, uno dei tre che portarono a Vittorio Emanuele nel 1859 i risultati del plebiscito unitario delle provincie parmensi. Si fece eleggere al parlamento subito dopo votando l´unità d´Italia, accettò nel 1874 la nomina a senatore. Ma non frequentò mai il Senato e anzi, come tanti del suo ceto e della sua generazione, provò via via una sempre maggiore disillusione per i risultati del nuovo Stato unitario.

Ed è quasi paradossale che colui il quale nelle opere più tarde avrebbe proposto eroi tormentati come Otello scavando nel malessere dell´individuo ed esprimendone a suo modo quella “perdita del centro” sulla quale si interrogava tanta cultura del tempo, sul piano politico vedesse nei mutamenti sociali, e nella trasformazione dell´Italia pur sempre nel senso di una maggior partecipazione delle masse alle scelte politiche, piuttosto i rischi e i lati oscuri. Al punto di partecipare, dopo le cannonate di Bava Beccaris sulla folla a Milano nel 98, a una sottoscrizione, ma per le truppe là impegnate. Lo fece d´altra parte tanta parte dell´élite cittadina del tempo.

Rappresentava con Manzoni (per la morte del quale aveva scritto la Messa da Requiem), ma pure con Garibaldi, e Cavour, e Vittorio Emanuele, un´epoca passata, quella dei fondatori dell´unità e della moderna identità italiana. A parte rimaneva forse solo Mazzini, dallo statuto dubbio per l´uso politico di parte che ancora se ne faceva. Ma le opere di Verdi erano ormai patrimonio nazionale, e tali sarebbero rimaste fino ad oggi. Il funerale di Verdi testimoniava d´una grande partecipazione collettiva, ma era la società a mobilitarsi, e per celebrare sì il longevo testimone di un´epoca finita, ma sotto il segno della cultura e non della potenza, e di una identità civile - certo costruita con molti elementi di consapevole “invenzione della tradizione” - ma proprio per questo capace di essere incessantemente rielaborata e restare vitale. Fino agli odierni usi leghisti, e sicuramente oltre.

25/01/2001