Università Cattolica del Sacro Cuore

Vermicino, così la TV imparò a trattare il dolore

Di quella tragedia di vent´anni fa ricordo le tante televisioni accese intorno a casa, nella notte sempre più fonda, in una diretta interminabile, sfuggita di mano - si disse poi - a chi l´aveva organizzata pensando a un rapido lieto fine e si trovava ora prigioniero delle attese e dei sentimenti che aveva sollecitato; e il senso di disagio che la stessa provocava, sempre maggiore a mano a mano che la vicenda ingigantiva e cambiava di segno: da modesto caso di cronaca a evento mediatico, da questione locale a vicenda nazionale, in cui poteva inserirsi persino l´allora presidente Pertini per invitare al Quirinale i soccorritori, da fatto materiale a metafora morale.

Da tempo la televisione aveva mostrato tutta la sua potenza, la sua capacità violenta di arrivare senza mediazioni a proporre “la realtà” e imporla. Non avevo dieci anni, e pure ricordo vividamente i filmati della rivolta d´Ungheria del ´56 al telegiornale, e pochi anni dopo la diretta di quella drammatica tappa del giro d´Italia interrotta al Bondone per neve, coi corridori sfiniti e stravolti e il senso di disastro imminente. Ma mai prima di Vermicino la televisione aveva fatto della sofferenza privata, se pur nella speranza d´una positiva soluzione, spettacolo consapevole.

Che il dolore facesse “audience” lo sapevamo già. Quel bel film di Billy Wilder, “L´asso nella manica”, ci aveva raccontato come si potesse addirittura manipolare la tragedia - anche là era questione di un uomo intrappolato in una grotta e alla fine morto - per conquistare attenzione e successo per sé e il proprio giornale. E il regista ci aveva mostrato pure nell´ultima sequenza, col parcheggio improvvisamente vuoto dopo l´affollamento dei giorni precedenti, il senso effimero di tutta quell´agitazione, il prevalere della strumentalità commerciale sulla compassione e solidarietà umana. La riduzione della sofferenza altrui a stimolo emotivo, a droga di cui ripetere l´assunzione per garantirsene l´efficacia. E la televisione in Italia con la diretta di Vermicino dimostrava di poter essere una droga ben più potente della carta stampata.

La sofferenza arrivava in diretta, senza mediazioni, senza bisogno di immaginare nulla. Tutto era visibile in tempo reale, il “flash” della dose addirittura stordente. La carta stampata sarebbe stata costretta ad andare a rimorchio, ad accontentarsi dei ritagli frugando nella vita dei genitori, dei soccorritori, per spremere qualche altro succo dalla tragedia. Da quel giorno forse cambiò il rapporto fra i due media: i giornali che avevano guardato con sufficienza alla televisione si resero conto che avrebbero dovuto cambiare di passo per resisterle.

Vuoi spostando sempre oltre i limiti del dicibile, contando sull´impossibilità per la televisione di inseguirli con le immagini là dove si poteva osare con le parole, vuoi privilegiando il commento sulla cronaca, dando per scontato che la notizia l´avrebbe data la televisione e a loro sarebbe toccato articolare le reazioni, insistere - letteralmente - sul retroscena, anche a costo di inventarlo dando credito a ogni voce, invece di filtrarla e verificarla. Da parte sua la televisione imparò che c´era un filone d´oro da sfruttare, che non c´era bisogno di inventarsi uno spettacolo, una trama, dei personaggi.

Bastava esibire il dolore, e che tanto più grezzi, sgrammaticati e orrendi fossero i casi e i protagonisti, tanto più sicuro sarebbe stato l´effetto. E che là dove la realtà non fosse bastata la si sarebbe potuta aggiustare inventando particolari, istruendo improvvisate comparse, fino a farne dei minimi professionisti pronti a interpretare qualunque parte: il fidanzato lasciato, l´amante tradito, il perverso pentito e via così, come sempre più spesso ci viene svelato da quegli stessi che si prestano al gioco e per ottenere un´altra gloriuzza corrono a svelare il trucco a “Striscia la notizia”.

Ma fare il processo alla televisione è moralismo peloso. Siamo noi telespettatori che la stimoliamo su questa strada, non viceversa, come da quel primo esempio di vent´anni fa già risultava. E sarà il caso allora di riflettere sulla ragione per la quale siamo tanto affamati di vita altrui. Come se la nostra non ci bastasse, come se senza quella droga non ne provassimo gusto. Come se la facilità dello spettacolo emozionante ci avesse reso incapaci di cercare dentro di noi verità e sentimento. Paradossale esito di una società che esalta anche contro le regole il “sii te stesso”, al punto che non ci sappiamo nemmeno più vivere assieme.


02/06/2001