Università Cattolica del Sacro Cuore

Dalla letteratura alla cronaca nera

Si chiamava Cucchetti. Era un gregario ignoto. Arrivò terzo nel tappone dolomitico quell´anno. Misero la sua gigantografia fuori dalla panetteria dove lavorava. Si chiamava Garzelli. I giornali avevano appena finito di dire che questo era il suo Giro, ed è risultato “non negativo” al doping. Storie di trenta e passa anni fa, storie di oggi. Storie di quando il ciclismo raccontava l´Italia a se stessa, storie del presente quando racconta solo delle proprie miserie. O almeno speriamo. La famosa tappa del Bondone, che nevicava e la corsa si fermò, ma i corridori inebetiti dallo sforzo cercavano di ribellarsi a chi li trascinava giù dalla bicicletta e li infagottava nelle coperte, perché dovevano ancora andare, imploravano, non era ancora finita. È finita quest´anno quell´avventura, forse. Pantani ci aveva fatto sognare un´ultima volta con la sua caparbia volontà di ripresa dopo ogni incidente, ma da quel giorno a Madonna di Campiglio non è stato più lui. O forse è ritornato se stesso. Piccoli campioni per imprese più grandi di loro. E nel ricordo ingigantiscono ancora quelli del passato. A Mantova c´è un museo per Learco Guerra, la locomotiva umana. L´hanno messo assieme a quello per Tazio Nuvolari. Non ci sarà per Garzelli, e temiamo nemmeno per Schumacher (vero Todt?). Eroi di un unico tempo mitico quelli, di una Italia che ammirava in loro coraggio e fatica, si riconosceva nelle loro facce, nella durezza di vittorie assurde. E ci credeva così tanto da dividersi su di loro e per loro. Coppi e la dama bianca, Bartali e l´Azione cattolica. Due modi di interpretare la vita. Ma poi tutti ad esaltarsi per quelle frasi dei grandi cronisti, i migliori giornalisti e scrittori che seguivano il Giro e il Tour. “Un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. E la foto di lui che si arrampica per lo Stelvio ancora sterrato con i tubolari a tracolla, simbolo non del ciclismo ma della condizione umana nelle ore più dure. E lui e Bartali che si passano la borraccia, e ancora oggi si discute, pur sapendo che la questione è irrisolvibile, su chi aiutava chi. Che poi poco importa. È di nuovo la condizione umana quella fermata dall´istantanea: non siamo sempre soli, c´è anche la solidarietà nelle ore più dure. Ma forse se i ciclisti non sono più quelli, è che nemmeno noi lo siamo. Troppa fatica, troppa serietà. La scorciatoia chimica per vincere come quella per divertirsi in discoteca, la fretta di cogliere col doping l´occasione senza rispettare né gli altri né la propria vita e la viltà di chi per salvarsela fugge dopo aver provocato l´incidente. Solo che nella vita quotidiana anche se non fa notizia la solidarietà c´è ancora, e gli esempi del rispetto e della fatica consapevole pure. I nostri sacrifici hanno cambiato aspetto, ma nessuno si può illudere a lungo che non tocchino anche a lui. Faceva dire Conrad ne “La linea d´ombra” al suo capitano dopo la durissima traversata: “E c´è un´altra cosa: un uomo deve saper far i conti con la sua cattiva fortuna, i suoi errori, la sua coscienza, e tutto questo genere di cose. Perché, contro che altro si deve lottare?”. Se il ciclismo non ci parla più di questo, pazienza, ci volgeremo altrove. La vita continua, è il ciclismo ad esser finito.

19/05/2002