- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 2002
- Non si vive soltanto per il lavoro
Non si vive soltanto per il lavoro
Anni fa si profetizzava la società senza lavoro, o anche il salario come variabile indipendente. Più modestamente si propose poi di lavorare meno, lavorare tutti. Adesso si scopre che dove si è andati in questa direzione, come in Francia con le 35 ore, i risultati sono ambigui. Più tempo libero ma anche maggiore isolamento sociale, diversa organizzazione della vita familiare ma non grande aumento dell´occupazione, salvo nel settore pubblico, dove non lo si sarebbe desiderato. Da noi comunque la questione non si pone. Perché lavorare è bello, evidentemente. E si discute piuttosto di come si possa continuare a lavorare, senza danneggiare i giovani in entrata sul mercato del lavoro stesso ma senza nemmeno andare obbligatoriamente in pensione. Facendo un mestiere sì dipendente, quello di professore universitario, ma nel quale non sono formalmente previste le ferie e dove, volendo, si può restare attivi fino a 75 anni, e in cui i pochissimi che abbandonano anticipatamente sono guardati dai colleghi con diffidente sospetto o affettuosa preoccupazione, non ho dubbi che lavorare sia bello. Peraltro a Bergamo non sembra dubitarne nessuno se persino il Vescovo, nella sua recente intervista garbatamente toccava il punto dell´inesausto, e forse eccessivo, gusto per il lavoro dei suoi fedeli e conterranei. Malattia diffusa e endemica almeno dalle nostre parti se quattro secoli fa un altro vescovo, ambrosiano questa volta, Federico Borromeo, descriveva i suoi come sempre affaccendati e accaniti nel lavoro, la vera passione predominante dei milanesi del Seicento. Certo, c´è lavoro e lavoro, e le proteste di inizio Novecento dei giudici e alti funzionari e professori universitari, quando venne loro stabilita - a 75 anni! - una età obbligatoria per la pensione, non erano per niente condivise da chi, nell´industria, lottava per avere una pensione dopo quarant´anni di lavoro e un minimo di garanzie sociali. Così ora il fatto che prolungare il tempo del lavoro possa riuscire, forse, appetibile in modo generalizzato dimostra che è il lavoro ad essere in molti ambiti cambiato. Ma anche che il lavoro nell´ultimo secolo ci ha profondamente cambiati. La cacciata dal Paradiso terrestre ha come conseguenza per l´uomo, ci racconta la Bibbia, la condanna al lavoro. E nell´altra tradizione costitutiva della nostra cultura, quella classica, il lavorare è il negozio, cioè il “nec otium”, il tempo del non ozio, del non potersi dedicare alla piena realizzazione di sé. Mezzo secolo fa la nostra Costituzione invece ha proclamato solennemente che la Repubblica è fondata sul lavoro, l´unico valore sul quale tutti i partiti del tempo trovarono un accordo. L´unico valore generale insomma. Tant´è vero che c´è una ruota dentata nello stemma della Repubblica. Va bene non esser più un popolo di eroi, santi e navigatori, ma davvero possiamo esser fieri d´esser solo un popolo di lavoratori? Sì, lo so, si dirà che molti, magari non a Bergamo, in realtà hanno fatto con successo resistenza passiva a quest´idea, come d´altra parte si sottolineerà che sulla disoccupazione, o sulle condizioni di lavoro, non si può scherzare. E ci mancherebbe. E pure si ricorderà che il sistema pensionistico potrebbe non reggere alle condizioni attuali. Vero anche questo. E ci sarà pure qualcuno, più pio di tutti, che esalterà il lavoro come via alla cristiana santificazione. Però resta la domanda se davvero si possa trasformare la condanna originale al lavoro in privilegio. Ovvero se si possa ridurre l´uomo al suo fare, se il non lavoro possa apparire solo un abisso di vuoto da sfuggire il più a lungo possibile, se la nostra identità sia solo quella professionale - e coi lavori cosiddetti atipici poi come la mettiamo? -. Se proprio non dobbiamo, lavoriamo pure finché vogliamo, ma con la consapevolezza che il lavoro non può sostituire o surrogare tutto il resto, l´enorme spazio del gratuito dentro cui stanno gli altri.
03/02/2002