Università Cattolica del Sacro Cuore

Più autonomia per salvare l´università

 

La riforma universitaria, avviata qualche anno fa, come è noto ha distinto il corso degli studi fra un primo livello, cosiddetto professionalizzante, di tre anni e un secondo, solo eventuale, di altri due di maggiore impegno anche teorico. È quello che viene chiamato in gergo “3+2”. Per chi dopo il primo livello vuole proseguire gli studi scegliendo un “+2” si devono calcolare i crediti acquisiti nel triennio in base ai corsi seguiti e agli esami fatti e nel caso non arrivassero, per quel “+2”, al massimo di 180 oltre ai 120 propri del secondo livello, andrebbero recuperati tutti quelli mancanti in modo che alla fine del “3+2” si siano ottenuti tutti i 300 crediti necessari al conseguimento della laurea specialistica. Due erano le idee di fondo della riforma. La prima era di abbassare l´età della laurea, la seconda di costruire un sistema più flessibile nel quale, entro il tradizionale quadro delle facoltà, si potessero però creare innumerevoli corsi professionalizzanti così da favorire l´ingresso dei laureati triennali nel mercato del lavoro. Risparmio al lettore le minuzie tecniche necessarie a far funzionare questo sistema e che negli anni passati hanno impegnato le facoltà in complicatissimi calcoli e provocato lo sfoggio delle intelligenze più brillanti per immaginare percorsi professionali particolari, al limite senza riscontro altrove, e capaci di allettare gli studenti sottraendoli alla concorrenza. Tralascio pure la guerra sui crediti fra le diverse aree disciplinari e la miserabile astuzia di propinare con diverso nome la stessa minestra cambiando intitolazione del corso in modo da moltiplicarne il numero e a creare nuove posizioni di professore. Tralascio pure la grottesca rigidità dei meccanismi ministeriali che hanno trasformato una riforma, la quale doveva privilegiare l´autonomia, in un percorso a ostacoli fra corsi di base, caratterizzanti, affini per i quali erano preventivamente stabilite dalle tabelle ministeriali percentuali con un minimo e un massimo di crediti. Non discuto nemmeno le buone intenzioni di chi la riforma ha progettato. Vengo ai risultati come al momento li si possono valutare. Pare che per le materie scientifiche, come ingegneria, la riforma stia funzionando e che il mondo delle imprese sia pronto ad assorbire i nuovi laureati triennali. Negli altri settori invece le perplessità - in primo luogo fra i docenti - crescono sempre più. In tre anni si impara meno che in quattro, è evidente, e la moltiplicazione dei corsi legata a quella dei percorsi “professionali” fa privilegiare le conoscenze specifiche sulle competenze più generali. L´eliminazione della tesi di laurea infine cancella la principale occasione per ogni studente di sperimentare personalmente i metodi della ricerca per produrre risultati originali. Senza dubbio nei settori con professionalità molto definite può essere utile avere dei “semilavorati” da adattare poi sul lavoro, ma l´università può ridursi a essere solo e sempre scuola professionale? E poi, come si concilia questa impostazione con la continua messa in guardia sulla necessaria flessibilità del sapere in un´età di rapide trasformazioni come la nostra, con insistenza sul fatto che non si farà più un solo mestiere nella vita, che bisogna essere capaci di cambiare e reinventare le proprie competenze professionali? Pensata dai governi dell´Ulivo in chiave di modernizzazione questa riforma in realtà scopiazza il sistema americano di 20 anni fa - là ora in fase di profonda revisione - e sembra tener conto delle sole esigenze dell´industria. Parla di autonomia per affrontare la crisi dell´Università di Stato disegnata alla fine dell´800 su pochi saperi fondamentali, ma reintroduce il governo dall´alto del sistema accrescendo massicciamente il delirio burocratico nello sforzo di creare l´autonomia “giusta” per decreto. Qualcuno dice che ormai è troppo tardi per cambiare, che la riforma ce la dobbiamo tenere com´è. Personalmente ne dubito. Credo invece che con un po´ di coraggio si possa cavare ancora il bene dal male. Basterebbe lasciare all´università la possibilità di pensare in piena autonomia percorsi da 3 a 5 anni caratterizzati come ciascun ateneo ritiene più opportuno e secondo le proprie esigenze. Si sta finalmente rivalutando la formazione professionale nel percorso scolastico. Come altrove, ci potranno allora essere corsi che costituiscono sbocchi privilegiati per quella formazione e altri per quella dei vari licei. E se poi vogliamo che davvero sia il mitico mercato a stabilire, come in America, il valore dei corsi e delle università, stabiliamo veri esami di ammissione all´università stessa, e soprattutto, aboliamo il valore legale del titolo di studio. Al contempo lasciamo libera l´università di darsi i docenti ciascuna secondo proprie regole, necessità e stipendi. Eliminando così lo scandalo delle mafiette accademiche le quali oggi ancor più di ieri gestiscono, come si dice, i concorsi. Questo significa responsabilizzare i giovani, le famiglie, chi lavora nell´università, e l´intera società poiché alla fine gli utenti finali dei laureati siamo tutti noi ed è giusto che siamo garantiti sulla loro effettiva qualità. Una vera autonomia è una medicina amara, anche per le università, è altresì un salto oltre la retorica del pezzo di carta. Ma se vogliamo essere seri non credo ci siano molte alternative.

28/08/2002