Università Cattolica del Sacro Cuore

Un supermarket ad Auschwitz. È un´offesa alla memoria

Ad Auschwitz Dio è morto, dicevano filosofi e cantautori una volta. Non era vero. Ad Auschwitz era morto l’uomo senza Dio, il superuomo che si immaginava l’eletto, la razza superiore, e poteva negare nell’altro una comune umanità, e dunque trattarlo come oggetto, “pezzo” senza identità e dignità, da usare e distruggere a piacere senza nemmeno aver bisogno di odiarlo, con assoluta indifferenza.
È per questo, per averci mostrato che il cuore di tenebre dell’Occidente non alberga soltanto nei folli ai confini del mondo, come nel Congo di Conrad – dove si calcola che la colonizzazione abbia prodotto dieci milioni di morti -, o nella sua copia vietnamita di “Apocalipse now”, ma può ritrovarsi nel mezzo della civilizzatissima Europa, nella Germania maestra di cultura e di scienza, che il nome di Auschwitz è diventato così pesante per la nostra coscienza. E ci tormenta e ci spaventa. Per questo il nome e la realtà di Auschwitz non appartiene a un popolo solo, o a una storia particolare, ma ha un senso universale. Era questo, io credo, che volevano sottolineare le suore cattoliche le quali pensavano di stabilire presso il recinto del campo di sterminio un loro convento. Non era né appropriazione né tradimento della memoria. Era anche l´antitesi esatta del nuovo progetto di cui si parla in questi giorni: la creazione là di un centro commerciale. Esso segue all´idea di aprire nei pressi del campo una discoteca, e immagino verrà giustificato con le medesime ragioni. Quelle di una rivendicata normalità di vita anche per i cittadini attuali del paese con quel nome terribile. Una volta era facile che i monaci tenessero un teschio nella loro cella, a ricordo della condizione umana. Pregare in vista del campo significava altrettanto, ma con l´occhio fisso alla miseria infinita non solo dell´individuo ma della società tanto presuntuosa e cieca del secolo appena trascorso, a ricordare non solo le vittime ma come si potesse divenire nella normalità, per l´appunto, volenterosi carnefici, come recita il titolo di un libro recente sulla persecuzione degli ebrei da parte di tedeschi qualunque inquadrati in reparti qualunque dell´esercito hitleriano. Rivendicare un diritto alla normalità, del consumo e del divertimento, in faccia ad Auschwitz comporta invece non solo un tentativo di rimozione della memoria tragica e universale inscritta in quel luogo, ma una vera e propria profanazione dell´uomo. Nel senso che esprime il disprezzo per ogni considerazione di lui che vada oltre la dimensione della materialità, e che lo pensi nella storia e non solo in un eterno presente. È un rifiuto, alla fine, di prender atto della fragilità dell´uomo, del suo limite, è un riproporre, nelle forme certo banali e “innocue” del consumismo, quell´idea di onnipotenza e di impermeabilità dell´individuo a tutto ciò che non lo tocchi immediatamente e direttamente, la quale in modo estremo, ma senza resistenze da parte di tanti uomini che si credevano normali, si è manifestata nell´erezione e pratica del campo di sterminio stesso, e nelle varie forme di quella mortale persecuzione del diverso da sé, l´ebreo come lo zingaro, l´avversario politico e tutti gli “untermenschen”, i sotto uomini. Scriveva Primo Levi evocando Auschwitz: “Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/… considerate se questo è un uomo/ che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no/… meditate che questo è stato”. Lo diceva cinquant´anni fa. Non possiamo che ripeterlo.

16/03/2002