Università Cattolica del Sacro Cuore

Alla fine anche Baffone cadde dal piedistallo

«Ha da venì Baffone» era, autoconsolatorio o minaccioso, lo scongiuro dei militanti comunisti italiani nei primi anni del dopoguerra. E voleva dire, rivoluzione sociale, migliori condizioni di vita nelle fabbriche, presa del potere, regolamento di conti con i nemici di classe, realizzazione del comunismo, e chissà quant´altro ancora. Insomma nel nome di Stalin era una speranza escatologica, quella che si esprimeva. Era il mondo alla rovescia, cioè finalmente messo sulle sue gambe quello che si auspicava. Era una speranza sopravvissuta alla constatazione che la rivoluzione russa aveva divorato i suoi figli in purghe e processi, che Stalin aveva firmato il patto con Hitler per la spartizione della Polonia al principio della guerra, e vi era poi entrato solo perché aggredito, che i fuoriusciti avevano narrato com´era l´Urss dall´interno (l´allora famoso «Ho scelto la libertà» di un colonnello sovietico riparato in Occidente), che intellettuali antifascisti e già comunisti avevano pur ricostruito, come Koestler ne «Il buio a mezzogiorno» (1940), il meccanismo di distruzione umana, prima ancora dell´eliminazione fisica, dei vecchi militanti sovietici attraverso i processi degli anni Trenta. D´altra parte per un Koestler che era uscito sconvolto da un viaggio in URSS nel 32 c´erano tanti altri che di ritorno avevano riferito delle meraviglie del regime e dell´amore del popolo per il «Piccolo padre». Come i famosi socialisti inglesi, i coniugi Webb, i quali nel 35 pubblicavano «Il comunismo sovietico: una nuova civiltà?». E poi c´era l´esempio de «Il Migliore», il compagno Ercoli degli anni Trenta rifugiato in Urss, il Palmiro Togliatti in doppiopetto che di là ritornato aveva preso in pugno il partito e lo guidava con mano sicura, alternando tatticismi astuti (la famosa «Svolta di Salerno» per l´unità antifascista nel 44, l´amnistia per i fascisti implicati in molti reati da ministro della giustizia), e arroganze verbali, come gli scarponi ben ferrati fatti preparare, lo proclamò in un comizio, per prendere a calci De Gasperi dopo la sicura vittoria nel 48. E peggio per chi non capiva le sue infallibili ragioni. Lo scrittore Vittorini entra in dissidio col partito? «Vittorini se n´è gghiuto, e soli ci ha lasciato» ironizza «Il Migliore», facendo il verso alla sicilianità dell´intellettuale e alla pretesa di lui di pensare per proprio conto. I deputati Magni e Cucchi si ribellano alla linea del partito? Sono i «magnacucchi», due «pidocchi nella criniera di un nobile destriero». Ed è una condanna morale assoluta quella di chi osa tradire la causa. E anche chi sapeva cos´era davvero lo stalinismo in Unione sovietica taceva. L´avrebbe spiegata da par suo Sartre la ragione, dicendo che no, non si doveva demoralizzare Billancourt, intendendo, attraverso la sede delle officine Renault, le masse operaie. Perché il culto di Stalin era generale e obbligato fra i partiti comunisti europei. Nemmeno la rivolta d´Ungheria nel 56, che pure scosse molte coscienze, bastò a mandare in pensione il mito del dittatore morto tre anni prima. Un´insurrezione di popolo era stata una manovra di americani e fascisti. E si sa la preoccupazione con la quale venne accolto il discorso di Krusciov che in quello stesso anno 56, nel famoso rapporto al Comitato Centrale del partito comunista sovietico, rivelò pubblicamente le colpe di Stalin, per assolvere in cambio il sistema e chi come lui alla politica staliniana aveva partecipato. Stalin ovvero il mito dell´Urss, lo stalinismo ovvero la dogmatica sicurezza d´esser dalla parte giusta, per duro e difficile che fosse in una società la cui maggioranza democratica, in cambio, ti guardava con sospetto, quando non ti emarginava. Si sarebbe dovuto attendere gli anni Settanta perché un successore di Togliatti, il segretario Berlinguer, dichiarasse che non era questione di persone, che era -disse pudicamente- la spinta propulsiva dell´Unione sovietica verso il socialismo ad essersi esaurita. Ripensando oggi a quella fede fortissima, e alla doppiezza assoluta di chi la alimentò come vera e giusta ben sapendo di mentire, non ci si può sottrarre a un senso di profondissima pietà per le vittime delle illusioni ideologiche le quali nel secolo passato hanno preteso la vita, e spesso la morte, di milioni di persone. Mai più, mai più, viene da invocare. Anche se oggi ancora i distinguo non mancano, il malessere di quella lontana stagione riaffiora. «Il manuale di storia» di Le Monnier curato da Chittolini, Capra e per la parte contemporanea da Della Peruta, (cito dall´edizione 1997) a proposito del Terzo Reich parla, giustamente, di «regime totalitario e dittatoriale», per l´Unione sovietica di Stalin, di cui pur descrive la vergogna della repressione e dei Gulag, più gentilmente di «regime autocratico», e non ci si riferisce mai ad esso come «totalitaria» o «dittatoriale». Mai più, mai più. Ma senza dimenticare di chiederci come mai a tanti milioni di italiani nessuno seppe offrire allora una speranza più convincente.

04/03/2003