Università Cattolica del Sacro Cuore

Destra e sinistra tra egemonia e trasformismo

La settimana scorsa Ezio Mauro su «La Repubblica» valutava, indignato e bellicoso, che negli ultimi tempi vi sarebbe stato un «trasloco di identità condivisa» in Italia, e un cambio di egemonia culturale senza le quali non si spiegherebbero successo e durata della destra. Ne trovava conferma nell´attacco sferrato a suo dire verso tre punti fermi della cultura civile repubblicana: antifascismo, azionismo, Risorgimento. Per concludere perentorio che «un Paese che in nome dell´ideologia camuffa il significato della sua storia non ha coscienza di sé». Fosse caso o volontà, il giorno dopo sul «Corriere della sera» Galli della Loggia accusava la sinistra di essere incapace di rinnovare le proprie interpretazioni storiche e la propria cultura, ritorcendole contro l´accusa di ideologizzazione. Posta in questi termini non vi è dubbio che la questione si risolva lasciando ciascuno sulle proprie posizioni e così i lettori, confermati nelle proprie predilezioni e idiosincrasie. A entrambi andrebbe ricordato forse quel che pochi anni fa scriveva Giovanni Miccoli a proposito della «deontologia professionale dello studioso di storia», il quale non si impegna «per costruire arringhe avvocatesche, né per dare libero corso ai propri sentimenti o per mostrarsi anima bella, ma per offrire a sé e agli altri strumenti e materiali per capire». E proprio in tale prospettiva può valer la pena di interrogarsi su questo scambio d´opinioni e su quanto esso rivela dell´attuale situazione di travaglio culturale in Italia. Nella loro perentorietà, bisogna innanzitutto dire, non paiono accettabili né l´una né l´altra delle posizioni. Immobilismo della sinistra? A me pare che proprio sui temi citati da Mauro si sia compiuta a sinistra una gigantesca operazione di trasformazione interpretativa secondo modalità che ne fanno un riuscito esempio, in molti casi e protagonisti, di trasformismo culturale. A ben vedere i tre punti fermi paiono in effetti assai mobili. Chi, se non proprio gli storici «di sinistra», ha per anni insistito sui limiti del Risorgimento, deprecato la piemontesizzazione, la «conquista regia», la sconfitta delle ipotesi democratiche, il trionfo del moderatismo? Tutti temi e prospettive su cui oggi si è messa da quella parte la sordina e ripresi, paradossalmente, da chi critica il Risorgimento da punti di vista diversi. E chi, se non la storiografia di sinistra, ha svalutato a lungo il ruolo dell´azionismo per sottolineare piuttosto quello del partito comunista, tanto sul piano dell´attività che su quello intellettuale? Scriveva Asor Rosa a metà degli anni Settanta nella Storia d´Italia Einaudi che «Giustizia e libertà», culla dell´azionismo, sviluppava filoni culturali «già assai logori della cultura antigiolittiana», parlava per Carlo Rosselli di «improvvisazione teorica». Peggio ha fatto nel 2000 Angelo D´Orsi rivisitando, sempre per Einaudi, «La cultura a Torino fra le due guerre» mettendo in rilievo, con gusto provocatorio, taciuti compromessi e collusioni col regime di quei medesimi futuri democratici non comunisti né socialisti che avrebbero illustrato la cultura di matrice azionista per lunghi anni nel dopoguerra. E d´altro canto in quel bellissimo resoconto della crisi delle speranze suscitate proprio negli azionisti dalla Resistenza per un rinnovamento dell´Italia «L´orologio», del 1950, Carlo Levi metteva in scena il proprio sconcerto per quello che reputava un duro e indifferente politicismo comunista. E quanto all´antifascismo, esso va inteso come lo intendeva la storiografia «di sinistra» quando condannava le tesi di De Felice come sotterraneamente riabilitatorie del fascismo, o dopo, quando le dava implicitamente per acquisite? Quando sottolineava la grandezza di Stalin come condottiero della guerra antifascista, o quando lo definiva personaggio «controverso», come faceva nella prima edizione del manuale Le Monnier per le scuole alla fine degli anni Ottanta Della Peruta, o oggi quando il carattere totalitario e ferocemente repressivo della politica staliniana è dato per scontato? E Togliatti, è il custode dell´eredità gramsciana o invece, come sostiene oggi Silvio Pons, direttore dell´Istituto Gramsci, sulla scorta di nuova documentazione archivista, proprio colui che lavorò per evitare in ogni modo la liberazione di Gramsci dal carcere fascista? E ci si potrebbe chiedere non solo a quale tempo della storiografia «di sinistra» si riferisca Mauro, ma anche a quale sinistra: quella comunista, azionista, socialista, cattolica? Il fatto è che i punti fermi si sono modificati e trascolorati a mano a mano che mutava la posizione della sinistra nella vita politica italiana. Quel che era coerente con una condizione di opposizione non andava più bene avvicinandosi al governo e poi tenendolo. Le ragioni della conservazione istituzionale tendevano a prevalere (e i D´Orsi ad apparire come guastafeste). Gli accenti andavano posti diversamente insomma, e davvero la storia andava, come dice Mauro, camuffata per dare coerenza al rapporto fra passato e presente. Bisogna aggiungere che di fronte a tante forze, divise e trasformiste finchè si vuole, ma tutte «di sinistra», è far troppo onore a una accademicamente del tutto minoritaria cultura storica di destra frequentemente ingenua, rancorosa o francamente sgangherata di aver saputo conseguire un trasloco di identità. È una soluzione consolatoria quella proposta da Mauro, e avallata indirettamente da Galli della Loggia. Non «la destra» ha vinto, bensì «la sinistra» ha perso, perso nelle giravolte interpretative coerenza e capacità di definizione dell´identità propria. C´è un piccolo libro, riporta uno scambio epistolare tra Vittorio Foa, Miriam Mafai, Alfredo Reichlin. L´ha pubblicato l´anno passato Einaudi e s´intitola «Il silenzio dei comunisti», e sull´afasia di chi proviene da quella tradizione, e sulla pochezza degli attuali sostituti della stessa, si interroga. Scrive Reichlin, «gli elettori di Berlusconi sembrano un popolo di alieni ai quali qualcuno ha aperto le porte» ma, aggiunge, da parte nostra non vi è stata capacità di proporre «nessun grande disegno riformatore», nessuna capacità «di unificare i riformisti intorno a un grande disegno». Invece di inventarsi mitici avversari intellettuali che son al più poveri untorelli, la sinistra farebbe bene a riflettere su questo, e da qui partire anche per ripensare storia e storiografia.

14/09/2003