- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 2003
- L´emigrazione ha diritto alla memoria
L´emigrazione ha diritto alla memoria
In questi ultimi tempi si è sviluppata una nuova sensibilità per la storia della nostra emigrazione. Il disastro di Marcinelle in Belgio dove morirono decine e decine di minatori italiani diventa un film televisivo, altre tragedie vengono riscoperte - come quella del 1907 nella miniera di Moonongah in Virginia, o l´affondamento del piroscafo Sirio, che al tempo diede le parole a una dolente canzone -, le nostre autorità si recano a render omaggio ai morti e ai sopravvissuti - come Ciampi in Belgio per l´appunto -, infine la recente creazione di un Ministero per gli italiani all´estero consacra tutto ciò sul piano istituzionale. Non tutto però viene ricordato, o ricordato con pari commozione. Quote d´ingresso nelle leggi Usa Si dimentica che le leggi americane del 1924 stabilirono delle quote d´ingresso nel paese a seconda delle caratteristiche razziali e culturali di chi faceva domanda, e che in testa stavano i bianchi anglosassoni e protestanti (da ciò la famosa sigla wasp) e in fondo gli italiani, bianchi d´ultima categoria. Né si commemorano i nostri connazionali ammazzati dai francesi a Aigues-Mortes negli anni Ottanta dell´800 in una ondata di violenza xenofoba dei poveri contro i più poveri, disposti ad accettare condizioni di lavoro che i locali rifiutavano. Quasi si volesse accreditare l´emigrazione come una calamità naturale, un evento senza responsabili, e senza implicazioni politiche. Scelta privata, dolore personale, terribile epopea collettiva, su cui chinarsi rispettosi con animo pieno di commozione e buoni sentimenti senz´altre considerazioni. Fra memoria e integrazione Al più il ricordo della nostra emigrazione, della nostra ancora recente condizione di ultimi e disperati, viene sollecitato per riflettere su chi da noi oggi arriva emigrante, straccione, sporco, povero, ignorante della nostra lingua e dei nostri costumi, incline a trovare solidarietà o protezione nel cerchio dei propri connazionali, come gli italiani nelle Little Italy e nei loro padrini che adesso fanno tanto folclore e curiosità turistica. E in effetti, si tratta probabilmente della funzione civile più importante che la memoria dell´emigrazione può giocare rispetto alla situazione attuale. Quella che ci invita, come ha fatto l´altro giorno la Conferenza episcopale italiana, e come ha suggerito Fini con la sua proposta di voto agli immigrati, a favorire in tal modo quella opportuna integrazione degli stranieri che è destinata altrimenti a compiersi in tempi più lunghi e in modi più tortuosi, con distorsioni più difficili da recuperare, infine con costi anche per noi e il nostro Stato più alti. I flussi migratori dall´Italia E però il ricordare la nostra emigrazione nel momento in cui tanto si parla di identità italiana, tanto ci si interroga sul nostro passato, non può non significare anche darci conto del fatto che l´emigrazione, allora come ora, non accade per caso. I flussi migratori dall´Italia furono modestissimi prima dell´Unità. Si impennarono dopo raggiungendo il massimo di intensità nell´età giolittiana, quando in meno di quindici anni lasciarono l´Italia più di otto milioni e mezzo di persone. Né furono sempre gli stessi a emigrare all´estero. Prima vennero i settentrionali, veneti soprattutto, ma anche lombardi, poi i meridionali. Gli stessi dell´ultima grande ondata migratoria, quella interna seguita al boom economico degli anni Sessanta. I condizionamenti dell´economia E come questa fu condizionata dallo sviluppo industriale, così lo era stata l´altra. A mano a mano che l´industrializzazione e la modernizzazione investivano il paese, parallelamente cresceva l´emigrazione. La distruzione dei meccanismi sociali di un´economia locale magari povera ma sostanzialmente in equilibrio, provocava l´insostenibilità della vita a una quantità sempre più grande di persone. L´emigrazione insomma come rovescio della medaglia della scelta dei ceti dirigenti italiani postrisorgimentali di accelerare la modernizzazione del Paese, di fare l´Italia uguale ai Paesi «più progrediti», di far nostro il progresso. Forse era una scelta per tanti versi, di economia internazionale e di cultura del tempo, obbligata. Il progresso e i pregiudizi Certo fu fatta senza molti scrupoli, coonestandola anzi, come facevano i positivisti, laici e progressisti di fine secolo, con agghiaccianti considerazioni sulla inferiorità razziale degli italiani del Sud. Non stritolati da un meccanismo economico che non potevano controllare ma costituzionalmente incapaci di comprendere la modernità e le sue esigenze. Come gli emigranti d´oggi, i nuovi barbari, come lo erano quegli italiani per Niceforo, Colajanni e tanti altri illustri professori e politici del tempo.. Quando esaltiamo il Risorgimento sarebbe bene che accanto ai martiri delle galere austriache o borboniche ricordassimo anche questi altri, tanto più numerosi. Una maggiore umiltà e consapevolezza politica riguardo al passato non solo è segno di onestà intellettuale ma ci può venir utile per riflettere meno retoricamente anche sul presente.
18/11/2003