Università Cattolica del Sacro Cuore

La lezione di dignità dell´Italia che non compare mai

Sembravano smarriti e a disagio anche gli uomini politici, ieri, ai funerali dei morti di Nassiriya. E un´ombra di desolazione ingrigiva la faccia del cardinal Ruini. Tutta gente di lunga esperienza, che ne ha viste tante e a tanti dolori di familiari ha dovuto assistere. E però forse mai s´era trovata in una situazione simile. Avevano davanti, oltre le bare, un´Italia che non compare mai, che non conosce l´uso volgare degli occhiali da sole ai funerali, che non ha talvolta nemmeno un abito adatto alla circostanza, che non grida, non impreca, non pretende nulla né vuol essere protagonista. Un´Italia che non chiede vendetta, né mostra odio, ma nemmeno si lascia ricattare dal buonismo obbligatorio dell´offrire pubblicamente perdono. Non i familiari, non i colleghi feriti. Un´Italia dalla dignità così forte, così pubblica senza ostentazioni quanto ne è riservata la pena nell´accarezzare la bara della persona amata, da intimidire e obbligare al rispetto lo spirito che si vorrebbe più forte e superiore a ogni emozione. La televisione ieri non ci ha rimandato l´immagine consueta d´una Italia fatta di veline e velone, di famosi a nulla impegnati in ridicoli masochismi, di calciatori o ballerine, e politici dall´esternazione compulsiva. Ieri ci ha mostrato un´Italia terribilmente seria che accettava i suoi morti e non di loro chiedeva conto, di loro che erano andati incontro a un destino che non desideravano ma sapevano possibile, ma chiedeva conto delle proprie vite, di come le vite di coloro che avevano condiviso quelle dei morti erano e sarebbero state trattate. Ai politici e ai potenti credo che quella dignità sia suonata come sfida e domanda, là dove non valgono le difese del ruolo istituzionale e la considerazione della propria importanza diventa peso, responsabilità. Nello smarrimento di quei volti impietriti di politici di lungo corso mi sembra si potesse leggere la scoperta attonita di una Italia che li guardava senza invidia e senza attese furbesche, non dal basso del postulante, nemmeno dall´alto d´un dolore sdegnoso, e li costringeva a chiedersi, con sgomento a veder l´effetto, quanto sapessero esser all´altezza di tanta dignità. Una dignità condivisa, occorre dire, manifestata come si è nelle lunghe file per salire al Vittoriano, nella folla intorno alla basilica, nelle bandiere esposte, nell´attenzione, salvo pochi casi, a non caricare di significati di parte quelle morti e quel funerale. Nella cura con cui il minuto di silenzio è stato osservato. E direi che è un altro segnale che questa tristissima vicenda ci invia. Un segnale di straordinaria importanza. L´Italia si è ormai riconciliata con se stessa. Quando morirono i tredici aviatori a Kindu nel 1961 ci fu emozione e dolore, ma anche imbarazzo. Per il modo selvaggio nel quale erano stati uccisi, che non si sapeva come trattare fra esibizioni terzomondiste e rimorsi coloniali, fra rispetto per gli uomini e distanza per una divisa che richiamava ancora una guerra troppo vicina. Oggi niente di tutto questo. La violenza si chiama col suo nome, terrorismo, la divisa non crea distinguo o distanza, la bandiera è di tutti, si accompagni pure a quella della pace o ad altre. Quei morti sono nostri, sono di italiani come noi, ci appartengono. E non ci vergogniamo di dichiararlo, tanto che non dobbiamo nemmeno gridarlo o esibirlo in segni scomposti. La loro morte fa parte della storia di tutti. Mentre gli intellettuali discutono dell´identità nazionale questa si è ricomposta per strade che appaiono misteriose, che i sociologi non sanno seguire, i politici comprendere, e però si sono percorse. Abbiamo attraversato la terribile bufera del Novecento, ci siamo spaccati dentro travolti dalle convulsioni ideologiche del secolo, oggi ritroviamo nei visi seri e comuni dei parenti silenziosi e composti la certezza che purtuttavia ci siamo ancora, fatti forse più saggi e più umili, e che ci teniamo gelosamente a noi, a noi italiani.

19/11/2003