Università Cattolica del Sacro Cuore

La sapienza perduta dell´Europa disunita

Tra le vittime della guerra, non morta ma gravemente ferita, c´è senza dubbio l´Unione europea. Non solo gli Stati che la compongono hanno parlato e agito in modi diversi e talvolta antagonistici, ma hanno sostanzialmente ridotto al silenzio gli organismi comunitari, dal presidente della Commissione Prodi in giù. La storia dell´unificazione europea ha conosciuto altri momenti di crisi e di stallo - i lunghi anni della politica francese della sedia vuota con De Gaulle, quelli non meno faticosi dell´ostilità thatcheriana - ma alla fine le ragioni per procedere hanno prevalso su quelle avverse per constatate ragioni di prevalente convenienza delle prime. Ciò ha richiesto a tutti larghe dosi di flessibilità e attitudine al compromesso, così da contornare i problemi che apparivano al momento insolubili, lasciando al tempo di trovare la risposta, e ha dato al progresso verso l´Unione il caratteristico andamento pragmatico, fondato sulla strategia di arrivare ai risultati non tanto attraverso dichiarazioni ideali e programmi esplicitamente politici bensì per via di provvedimenti amministrativi, minuziose costruzioni procedurali, capillarità di microinterventi dall´apparenza innocuamente tecnica. Della burocrazia di Bruxelles possiamo lamentare l´elefantiasi e deprecare la passione regolamentatrice, ma non dobbiamo dimenticare che le sue caratteristiche sono il prezzo pagato per arrivare a risultati che cinquant´anni fa sarebbero sembrati incredibili e dei cui frutti tutti godiamo senza più nemmeno rendercene conto. E, bisogna aggiungere, proprio la debolezza politica dell´Unione e apienza amministrativa ne ha definito gli innovativi caratteri di potenza «gentile», com´è stato detto, molto più a suo agio nello stabilire trattati commerciali, meccanismi di aiuto al terzo mondo, garanzie sociali per le aree svantaggiate al suo interno, politiche economiche e sui diritti individuali, che nell´intervenire là dove alla diplomazia bisognava accompagnare la forza. Il fallimento nella ex Jugoslavia, che obbligò alla fine gli americani a intervenire, senza la benedizione dell´Onu ma con l´incoraggiamento papale a proteggere i bosniaci, ne è stata la prova più evidente. E sull´Iraq si replica, con l´aggravante che le ambizioni nazionalistiche sproporzionate a medie potenze come sono al più le europee, sono emerse con presunzione ancora maggiore e dirompente. Qualcuno, sottolineando che per mezzo secolo l´Europa ha potuto crescere restando un nano politico grazie all´ombrello americano, punta allora il dito sul fatto che manca una politica militare comune, un investimento finanziario e culturale in truppe e armamenti che renda l´Europa più coesa e più autorevole nel dialogo con gli Usa e verso i Paesi terzi. Può essere una strada. Rinunciare al burro dello stato sociale per i cannoni dello stato potenza. Ma è una strada realistica sul breve e medio periodo? Ne dubito. Non foss´altro perché significa prender di petto, nell´ambito prettamente politico in cui l´Unione è per quanto detto più debole, questioni nelle quali la virulenza delle nostalgie nazionaliste è più forte e difficile da domare, e perché, alla fin fine, mettersi sul piano della concorrenza militare con gli americani è - per motivi pratici, storici e culturali - irrealistico e sicuramente perdente. È vero tuttavia che se si vuole contare di più, essere una forza autorevole di stabilizzazione e pace, anche per tutelare meglio i propri interessi collettivi europei, dei costi si dovranno pagare. Nei rapporti con i Paesi terzi non basteranno né le visite diplomatiche, e gli ammaccati sorrisi di Prodi, né le invocazioni alla pace, nemmeno la carità degli aiuti e dei buoni proponimenti. Occorrerà dare per poter ricevere e costruire, un po´ come è avvenuto tra i Paesi dell´Unione, una convenienza prevalente alla collaborazione e cooperazione con i Paesi terzi, a cominciare da quelli più vicini e che più premono ai confini di Shengen. Quando il bilancio comunitario è destinato ancora oggi per quasi la metà ai sussidi all´agricoltura, è evidente che alle belle parole non corrispondono i fatti, e che le economie dei Paesi del Sud a noi più vicini restano penalizzate e non integrate in una valutazione di convenienza proprio in quel che di meglio hanno da offrire, i prodotti agricoli. Certo, diminuire i sussidi significa, specie in Paesi come la Francia e la Germania, obbligare a ristrutturazioni economiche e sociali che possono essere dolorose, significa mutare lo stesso profilo fisico del nostro continente, se vogliamo. Ma se al burro dello stato sociale dobbiamo in qualche misura rinunciare, sia almeno per una dieta più ricca di frutta esotica e di servizi e per una garanzia di pace sociale più larga ma in qualche modo diversa da quella che abbiamo ricercato al nostro interno in questi anni, e che comunque gli attuali sconvolgimenti internazionali mettono sempre più a rischio. La sapienza amministrativa nostra specialità ci può ancora una volta enormemente meglio servire d´ogni proclama. Perché fare i primi della classe nel reclamare la pace, salvo già trattare per le commesse del dopoguerra, come hanno fatto Germania e Francia, guadagna palcoscenico e applausi. Non risolve i problemi che per primi vanno affrontati per diventare davvero costruttori di pace.

03/04/2003